Pillole di
#verascuola 1
Di INVALSI e
valutazione …
(versione
intermedia di un lavoro più corposo presentato ad una webzine per la
pubblicazione)
Nel corso del
2015, sotto la turbolenza professionale relativa ai progetti di (ennesima)
riforma della scuola, peraltro molto penalizzante per la vita professionale, e modificante
il ruolo giuridico, degli operatori scolastici all’interno della stessa
comunità di apprendimento, sono state messe in campo azioni di più o meno
velato boicottaggio delle annuali prove INVALSI. Queste ultime sono delle
indagini statistiche centralizzate di valutazione esterna sugli esiti di
apprendimento di campioni medi della popolazione studentesca.
L’INVALSI,
Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione, a seguito del
D.lgs n. 258 del 1999, sostituisce il Centro Europeo dell’Educazione e, di
concerto con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca,
procede a rilevazioni periodiche dei livelli medi di apprendimento degli
alunni. Esso «fornisce alle scuole molte indicazioni per la riflessione sui
processi di insegnamento-apprendimento e per individuare priorità su cui
definire obiettivi di sviluppo e interventi da mettere in atto»[i].
La sua storia è
nota, ignoto il suo futuro, del tutto incerto il suo reale contributo al
miglioramento del servizio pubblico di istruzione. Il primo riferimento diretto
ad una valutazione del servizio scolastico la troviamo nell’art. 603 del Testo
Unico, ovvero il D. Lgs. n. 297 del 1994. Vi viene espressa un’intenzionalità,
ma è ancora assente un disegno completo sulla valutazione. Basta attendere tre
anni e il discorso viene ripreso nell’allegato “Documento per l’avvio del
servizio nazionale per la qualità dell’educazione” alla circolare ministeriale
n. 403 del 1997. Nel 1998 si hanno le raccomandazioni OCSE le quali trovano
declinazione nell’art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 275 del 1999 che introduce il
sistema delle rilevazioni periodiche degli apprendimenti e della qualità del
servizio erogato. Così, il D. Lsg. N. 258 del 1999, che trasforma il CEDE
nell’odierno INVALSI, realizza il primo embrione di un sistema centralizzato di
valutazione degli apprendimenti e della qualità del servizio di istruzione. Ma
è «ancora un profilo debole»[ii]. Le
cose cambiano nel biennio 2001 – 2003 quando il ministro Moratti dà l’input a
dei progetti piloti che consentono di volgere il dibattito sulla valutazione
nella direzione della costruzione di «un istituto nazionale e un sistema
organico di valutazione»[iii].
L’art. 3 della
L. n. 53 del 2003 individua e precisa i principi e i criteri da osservare per
la valutazione degli apprendimenti e della qualità. Con il D. Lgs. n. 286 del
2004 si costituisce l’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema Educativo e
di Istruzione (I – N – VAL – S - I). Tuttavia, è solo con la L. n. 176 del 2007
che le attività dell’istituto prendono concretamente avvio. Le vicissitudini delle
prove INVALSI sono, dunque, storia recente: la scuola pubblica italiana le
subisce da solo 7 anni! Eppure, pare storia antica! Con il D.P.R. n. 122 del
2009 abbiamo il riconoscimento dell’Invalsi e del sistema nazionale di
valutazione degli apprendimenti attraverso la sua attività concreta nelle
scuole.
In altri
termini, le prove INVALSI dovrebbero servire a migliorare le usuali pratiche di
insegnamento-apprendimento, focalizzando l’attenzione delle scuole sui punti di
forza e di debolezza delle stesse. L’istituto dovrebbe fornire una base
documentaria onde poter comunicare alla comunità di riferimento non solo la
gestione economica – finanziaria, ma anche il capitale umano prodotto.
Attraverso la misurazione INVALSI si completa, pertanto, la base di conoscenza
che, assieme ai dati di gestione, rende conto all’esterno dell’attività della
singola istituzione scolastica. Dunque, la misurazione degli apprendimenti, per
come operata dall’INVALSI, è fondamentale nel processo di costruzione di un bilancio
sociale, e, in un’ottica più vasta, nella prospettiva di una
rendicontazione sociale delle attività annuali da parte delle scuole.
La sequenza di
tale rendicontazione, a partire dalle verifiche INVALSI, può anche venir
espressa nella forma che segue:
fig.1 – dall’interno verso l’esterno.
La
responsabilità sociale delle scuole deriva da «un dovere di trasparenza e
rendicontazione sull’operato non di un singolo individuo, ma dell’intera
organizzazione»[iv].
Il principio della responsabilità sociale delle scuole, radicalmente imperniato
sulla stessa finalità informativa dei dati INVALSI, mette capo ad una precisa
imputazione di tipo conoscitivo sulla gestione delle risorse compiuta
dall’istituzione scolastica e sui risultati della stessa.
Ma se questo è
il modello generale alla base di qualsiasi processo di rendicontazione esterna,
per quale motivo usufruire delle prove INVALSI? Non basterebbe una qualche
forma di autovalutazione di istituto? Si tratta di una soluzione già in uso
nelle istituzioni scolastiche, ma che non consente di cogliere il nesso tra tipologia
di organizzazione scolastica e impatto sociale ottenuto da
quest’ultima. Rispetto ai questionari di valutazione interna, dunque, i dati
desumibili, oltre ad essere parziali, non consentono alcuna comparazione con
livelli standard di apprendimento. Ne emerge anche una malcelata sfiducia nei
confronti delle stesse realtà scolastiche di base, in vario modo considerate
incapaci o inaffidabili quando si tratta di valutare, ed autonomamente, il
proprio operato. Attraverso l’INVALSI, in altri termini, il “centro”
governativo (Ministero; Governo; Parlamento; opinione pubblica; politica; etc.)
opera un controllo (esterno) sulla “periferia” amministrativa, non fidandosi
delle varie forme di (auto)valutazione interna delle istituzioni scolastiche, e
tradendo, in maniera molto paradossale, la stessa fiducia accordata con il
riconoscimento della piena autonomia scolastica.
Ora, sebbene i
dati delle prove INVALSI in passato siano anche stati strumentalizzati sia
nella polemica retorica contro i docenti, in vario modo ritenuti inadeguati
alla funzione chiamati a svolgere, ma in maniera ovviamente del tutto
decontestualizzata, sia nella forma della stesura di vere e proprie classifiche
tra scuole virtuose, e, dunque, buone, e scuole non virtuose, e, dunque,
cattive, Paletta invita alla cautela e a utilizzare in modo accorto la mole
informativa desumibile[v]. Non
basta rilevare, misurare, aggregare e comparare dati statistici, è necessario
anche che la singola istituzione scolastica avvii una seria riflessione sui
dati in suo possesso al fine di mettere in campo iniziative volte al
miglioramento della propria attività istituzionale. E questo secondo la nota
logica del controllo esterno, ovvero l’INVALSI ottiene e certifica una base di
conoscenza che ritorna infine alle singole scuole per pretenderne una
conseguente modifica organizzativa finalizzata all’attivazione di un processo
di miglioramento.
Veniamo ora,
anche seppur brevemente, alle ragioni di tanta ostilità nei confronti delle
prove INVALSI. A fronte di una scuola ogni anno più povera e con risorse sempre
più esigue, le uniche fonti di spesa in qualche modo aumentate sono il
finanziamento dell’istituto di valutazione e le retribuzioni dei dirigenti
scolastici. Tralasciando qualsiasi considerazione di opportunità e di
meritevolezza riguardo a questi ultimi, i futuri super – presidi, o, il che è
lo stesso, i presidi – sceriffi, della riforma “La Buona Scuola”, è quantomeno
singolare che lo Stato aumenti la spesa dell’istituto senza richiedere a
quest’ultimo un serio aumento di competenze e di attività. Così, mentre
l’operatività effettiva dell’istituto resta immutata, ne aumenta la spesa.
Basterebbe, allora, far osservare che si tratta di una cosa anomala, ma di per
sé non pare sufficiente per rendere giustizia al profondo malessere dei
docenti. Infatti, l’istituto si limita a:
fig. 2 – Attività invalsi.
In tale elenco,
mancano due voci parimenti importanti, ma che pare non essere di pertinenza
dell’istituto, vale a dire x) somministrare concretamente le prove agli
studenti; e, xx) correggere materialmente le singole prove. Per compiere gli
ultimi due passi è imprescindibile la buona volontà dei docenti. E, ribadisco:
la buona volontà! Perché? La risposta è semplice, l’intera valutazione da parte
dell’INVALSI “cala dall’alto” sulla normale didattica scolastica e viene
imposta ai singoli docenti che devono poi 1) somministrarla agli alunni; 2)
sorvegliare questi ultimi durante l’espletamento; 3) correggere i singoli
questionari; e, infine, dulcis in fundo, 4) caricare i dati sulla
piattaforma. Ovviamente, non un solo centesimo di euro viene loro elargito per
questo volontariato che interrompe, a tutti gli effetti, la didattica ordinaria
e che porta via svariate ore di attività (non) funzionale all’insegnamento.
E già tanto
basterebbe per far comprendere la legittima ostilità dei docenti. Purtroppo,
però, v’è dell’altro! Infatti, le prove in questione appaiono del tutto aliene
rispetto agli apprendimenti curriculari. In altre parole, quel che misurano è
uno standard di capacità, e non un livello medio di apprendimenti.
Si tratta, pertanto, di prove estranee al normale curriculum scolastico e che
non possono che suscitare più di qualche perplessità, e nonostante che, proprio
per i motivi su esposti, non può che essere così dal momento che le misurazioni
operate dall’istituto sono delle registrazioni (esterne) di parametri
statistici (valutazione di sistema), e non delle verifiche (interne) di
apprendimenti individuali (valutazione curriculare). Ed è, allora, se proprio
si vuole guardare a fondo la dinamica tra singole scuole ed INVALSI, del tutto
anomalo che a compiere simili registrazioni statistiche non sia del personale
di tale istituto, o, al massimo, un personale ispettivo a ciò dedicato, ma lo
stesso personale scolastico privo delle reali competenze per farlo con criterio
o comunque non retribuito per tali scopi. Così, ad un sostanziale volontariato
forzato si aggiunge il rischio di errori materiali imputabili alla differenza
tra il momento di formulazione e produzione dei questionari e il momento di
somministrazione, correzione degli stessi e ricavo delle informazioni da questi
ultimi.
Ovviamente, la
loro introduzione nel sistema, la loro finalità e il tipo di collaborazione tra
singole scuole ed istituto potevano essere pensati diversamente e in un modo
certamente migliore, ma, duole rilevare ogni volta, le politiche scolastiche
vanno un po’ così: innanzitutto vengono imposte dall’alto alla meno peggio e
richiedono in seguito, per poter funzionare, della disponibilità volontaria, e,
quindi, non retribuita, della principale, ma forse spesso anche l’unica, forza
lavoro a disposizione delle istituzioni scolastiche, vale a dire dei docenti.
Così, in un turbinio di retorica governativa e di umore di pancia popolare, se
le cose vanno bene, è solo perché ci sono ottimi dirigenti scolastici che
reggono e fanno filare le istituzioni scolastiche. Invece, se vanno male è solo
perché ci sono pessimi docenti, che sarebbe appena il caso di allontanare dalle
classi.
La valutazione
di sistema, dunque, in conclusione, sembra ‘schermare’ la responsabilità
istituzionale e gestionale dei dirigenti e colpevolizzare oltre misura la
responsabilità professionale dei docenti, oltre che render concreta una vera e
propria ideologia del merito secondo la quale ««i capaci e meritevoli» sono i
più intelligenti e volenterosi, mentre quelli che non riescono o non si
impegnano o sono «limitati» sul piano cognitivo»[vi]. La
differenza tra la retorica moralistica e le concrete dinamiche di sistema,
invece, sta tutta nella capacità, ovviamente non innata, di interpretare ed
utilizzare conseguentemente i dati derivanti dalla valutazione di sistema.
Tutto il resto è lotta senza quartiere della politica scolastica e della guerra
dei discorsi, a loro modo interessanti, ma, in fin dei conti, inadeguati a
render conto dell’effettivo “merito” di tutti gli attori coinvolti nel
funzionamento della singola organizzazione scolastica. In fondo, infatti,
basterebbe maggiore buon senso. Come scrive Cerini, infatti,
Forse troppe speranze sono oggi rivolte alla
valutazione. C’è il rischio di un’eccessiva enfasi sul testing (e sulla
rilevazione standardizzata degli apprendimenti) come via privilegiata alla
qualità della scuola. Prove di verifica delle conoscenze (e delle competenze)
degli allievi dovranno quanto meno essere accompagnate da visite e sopralluoghi
alle scuole da parte di team qualificati, che possano rilasciare report e
suggerimenti per il miglioramento[vii]
Volendo tirare
le somme, allora, potremmo utilizzare lo schema seguente al fine di comprendere
meglio la natura oltre che la differenza tra la valutazione didattica e la
valutazione di sistema:
fig. 3 – Differenti tipi di valutazione.
Tuttavia, a mio
onesto modo di vedere, v’è un non – detto che rimane sempre sullo sfondo
all’intera polemica sulla valutazione, vale a dire le conseguenze derivabili
dall’accertamento dei meriti così come delle colpe dei vari attori. In altri
termini, puntare sulla responsabilizzazione delle scuole senza però distribuire
premi o punizioni a seconda dei meriti di ciascuno sembra non render conto, né
giustificare fino in fondo, della veemenza con cui il tema è stato imposto e
discusso nell’agenda pubblica. Una valutazione “forte” infatti sembrerebbe
essere l’anticamera per un effettivo riconoscimento dei meriti individuali.
Invece, almeno sinora, ciò non è accaduto. Come mai? La risposta che credo di
poter dare è la seguente: (come sempre accade in Italia) le riforme si fanno a
metà, né carne né pesce, perché per modificare qualsiasi assetto effettivo ci
vorrebbero ingenti risorse e queste ultime o non ci sono o non si vogliono
trovare (per ragioni estrinseche, ovviamente)! Così, si vorrebbe introdurre la
valutazione, ma senza modificare le voci e i volumi di spesa. Pertanto, la
valutazione di sistema in Italia è intrinsecamente debole: indica di sfuggita
alcune criticità, ma lascia alla buona volontà dei dirigenti, come dei docenti,
la scelta di cosa fare, su stretta base volontaria, ossia non incentivata, per
migliorare gli esiti di apprendimento e la qualità del servizio reso. La
logica, oltre che del tutto scontata, conseguenza è che l’INVALSI certifica non
tanto gli esiti di apprendimento e del servizio di istruzione, quanto, e
piuttosto, la costituzionale incapacità del sistema stesso ad aggiornarsi e a
migliorarsi.
[i]
Cfr. A. Paletta – C. Bonaglia – C. Boracchi – L. Peccolo, La scuola rende
conto … op. cit., p. 74.
[ii] Cfr. D. Previtali, op. cit., p. 141.
[iv] Cfr. A. Paletta, Scuole responsabili dei
risultati. Accountability e bilancio sociale, Il Mulino, Bologna,
2011, p. 99.
[vi] Cfr. N. Capaldo – L. Rondanini, Manuale …
op. cit., p. 434.
[vii] Cfr. G. Cerini, Premessa: l’etica del
render conto, in G. Cerini (cur.), Il nuovo dirigente scolastico tra
leadership e management, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2010, p. 280.