Considerazioni impopolari
sull’eutanasia legale
Nel convulso e caotico crocevia
dei fatti internazionali (Afghanistan), delle polemiche interne su vaccini e
greenpass, ancora freschi di campionato europeo appena vinto, c’è un movimento referendario
che, quasi sottotraccia, pare aver raggiunto la soglia psicologica delle
500mila firme, suggello necessario per potersi validamente candidare a momento
di convocazione dei seggi. È la proposta chiamata “Eutanasia legale”, sulla
quale svolgerò in questa sede alcune veloci ma efficaci considerazioni non
popolari, ovvero che non piaceranno ai più, e probabilmente proprio ai
promotori referendari e ai loro molteplici sostenitori, tifosi e partigiani.
Forse si vorrebbe che io
prendessi nettamente una posizione, pro o contro l’oggetto del contendere, la
legalizzazione dell’eutanasia. Ma non lo farò. Innanzitutto, perché uno
schierarsi preliminare di per sé non è efficace nel conferire fondatezza alla
posizione che s’intende sostenere. E, in secondo luogo, perché l’oggetto del
contendere non è automaticamente o nativamente prendere le une o le altre parti
quanto, e piuttosto, mostrare quanto vi sia di errato nella proposta “Eutanasia
legale”. Immagino che alcuni potrebbero già dirmi “va beh, non sei d’accordo, e
allora non potresti parlarne”. Ma questo è un violento modo di procedere che
nega a priori qualunque possibile serio e costruttivo confronto. Anzi, è un
negare validità all’interlocutore, né più né meno che dire che in quanto uomo,
ad esempio, non potrei occuparmi di questioni di genere. Oppure che non essendo
ricco, io non possa interessarmi dei ceti sociali superiori. Oppure ancora che
non essendo genitore, non possa sensatamente discutere dell’educazione dei
figli. Gli esempi sarebbero innumerevoli, ma ragione vuole che comunque ci si
esprima e solo dopo si valuti la bontà degli argomenti, senza esclusioni
aprioristiche degli interlocutori. Allora, posso pure immaginare la scontata
risposta di certi interlocutori; “Va beh, ma siete in pochi, forse solo tu, a
vedere le cose in questi termini”. Non è un’obiezione forte, anzi, a dispetto
dell’apparente forza, denota una profonda debolezza. La bontà non dipende dal
consenso, ma dal valore degli argomenti.
E sebbene impopolari, le mie
considerazioni andranno prese sul serio.
Di cosa si tratta? Di chiedere agli elettori
il loro consenso all’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale. La
sua attuale formulazione è la seguente:
Chiunque cagiona la morte di un
uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.
Non si applicano le aggravanti
indicate nell'articolo 61.
Si applicano le disposizioni
relative all'omicidio [575-577] se il fatto è commesso:
1) contro una persona minore
degli anni diciotto;
2) contro una persona inferma di
mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra
infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
3) contro una persona il cui
consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione,
ovvero carpito con inganno [613 2].
Beh, se immaginiamo al contesto
astratto dell’eutanasia, camera medica, personale in camice, il letto del
paziente, macchinari medicali vari non sembra che l’abrogazione parziale del
presente articolo centri molto. Secondo la Treccani, con ‘eutanasia’ deve
intendersi “Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi
agisce (eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura
anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze.
In particolare, l’eutanasia va definita come l’uccisione di un soggetto
consenziente, in grado di esprimere la volontà di morire, o nella forma del
suicidio assistito (con l’aiuto del medico al quale si rivolge per la
prescrizione di farmaci letali per l’autosomministrazione) o nella forma
dell’eutanasia volontaria in senso stretto, con la richiesta al medico di
essere soppresso nel presente o nel futuro. L’uccisione medicalizzata di una
persona senza il suo consenso, infatti, non va definita eutanasia, ma omicidio
tout court, come nel caso di soggetti che non esprimono la propria volontà o la
esprimono in senso contrario” (fonte: https://www.treccani.it/enciclopedia/eutanasia/). E in
genere quando pensiamo allo scenario che attiva il ricorso all’eutanasia
pensiamo sempre ad un contesto medico o comunque ad una situazione soggettiva
di sofferenza non sopportabile, lenita appunto per mezzo del ricorso alla
soppressione di colui che soffre e che chiede di morire. Sembra quasi allora
che l’eutanasia sia un gesto pietoso nei confronti dei sofferenti e sicuramente
in questo senso molti astrattamente immaginano questa pratica come giusta, come
una conquista di civiltà, come un diritto soggettivo, finalizzato a rendere i
soggetti liberi sino alla fine, come nel motto del movimento referendario. Beh,
così non è, e lo vedremo subito. Intanto il quesito referendario per il quale
si raccolgono le firme è il seguente:
“Volete voi che sia abrogato l’art.
579 del codice penale (omicidio del consenziente) approvato con regio decreto
19 ottobre 1930, n. 1398, comma 1 limitatamente alle seguenti parole «la
reclusione da sei a quindici anni.»; comma 2 integralmente; comma 3
limitatamente alle seguenti parole «Si applicano»?” (fonte: https://referendum.eutanasialegale.it/il-quesito-referendario/).
Se il numero di firme fosse
sufficiente e se Corte di Cassazione e Corte Costituzionale dovessero dare
parere positivo e fosse raggiunto il quorum e la maggioranza dei voti fosse per
il sì, l’effetto della consultazione sarebbe la rimodulazione seguente del
suddetto articolo 579 del codice penale:
“Chiunque cagiona la morte di un
uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio
[575-577] se il fatto è commesso:
Contro una persona minore degli
anni diciotto;
Contro una persona inferma di
mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra
infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
Contro una persona il cui
consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione,
ovvero carpito con inganno [613 2]”.
Bene, e dove starebbe qui
l’eutanasia? Dove la libertà dei malati terminali? Di quanti soffrono per
condizioni sanitarie non emendabili? In che termini la morte di chi la richiede
(consenziente) sarebbe “buona” o “dolce”? Inutile dire che l’intento del
movimento referendario è quello di disarticolare il divieto di omicidio del
consenziente, ma non sarebbe ancora eutanasia, perlomeno di quel mito sociale
cui quasi tutti pensano. Soffro, e smetto di soffrire. Voglio morire perché
questa vita non mi dà nulla, ma non voglio soffrire. In realtà, l’effetto
finale è quello di non perseguire più l’omicidio di un consenziente, a meno che
il consenziente non fosse un minore, una persona non sana di mente o in
condizioni di infermità o incapace di intendere e di volere, o il consenso
estorto o carpito con l’inganno. Il mero riferimento al consenso espresso dal
consenziente non configura in maniera precisa la fattispecie dell’eutanasia, ma
di una possibilità omicidiaria che non per forza dovrebbe essere dolce o buona.
Quindi, non sarebbe più perseguibile chi uccide un consenziente. Ma chi
dovrebbe ucciderlo? E come? E quando? E in quali condizioni? Anche lo stesso
consenso è sempre validamente espresso? Oppure una volta espresso non è più
modificabile se si cambia idea nel frattempo? E come dev’essere espresso? Questo
i promotori del referendum non lo dicono con il loro quesito, ma lo sviluppano
in un discorso generale comunque posteriore alla stessa consultazione
referendaria, forti del testamento biologico e della sentenza della Corte
Costituzionale sul caso del suicidio assistito del DJ Fabo.
Ma il quesito ha poco di
eutanasia, e molto di legittimazione dell’omicidio. Senza peraltro quella
condizione “senza soffrire” che rende appetibile la pratica. Ed immagino che
l’entusiasmo di molti già giunti a questo punto si sia raffreddato. Magari
possono anche sentirsi un po’ imbrogliati, ma il marketing referendario
funziona un po’ sempre così. E ciò dipende non tanto dalla buona fede dei
comitati proponenti, ma dall’istituto stesso del referendum, che nel nostro
ordinamento è abrogativo, nel caso di leggi ordinarie, e confermativo,
nel caso di leggi costituzionali. Non è propositivo, e, quindi, votando
il quesito di Eutanasia legale gli elettori non votano affatto per una
proposta, rendere legale l’eutanasia, ma per abrogare parzialmente un articolo
del codice penale. Inutile nascondersi che un siffatto esito referendario
obbligherebbe il legislatore ad intervenire, sia per coordinare l’art. 579 del
codice penale così novellato con il resto dell’ordinamento giuridico sia per,
eventualmente, normare davvero l’eutanasia. Dunque, pare non sbagliato
interpretare la consultazione più un tentativo di forzare la mano ai decisori
politici piuttosto che una legalizzazione tout court dell’eutanasia.
Eppure, e paradossalmente, anche
per quello che dirò a breve, nonostante tutto, è il quesito proposto una
maniera contorta per rendere legale la pratica in questione. Sì, se colui che
sopprime chi lo richiede non è più perseguito, viene soddisfatto uno degli
aspetti costituenti l’eutanasia. E, a mio sommesso parere, è anche l’aspetto
principale dell’oggetto del desiderio: l’eutanasia è un modo edulcorato per
dire omicidio di chi lo richiede. E la pretesa che sia data esecuzione al
volere dei singoli sembra calcare le movenze di un’obbligazione: il mio
consenso ti obbliga ad eseguire la mia volontà …
Qui termina la disamina legale e
cominciano le considerazioni politiche ed etiche. Si dirà che in fondo il
legislatore deve fare ciò che desidera la maggioranza: se quest’ultima vuole l’eutanasia,
l’eutanasia dovrà essere legalizzata. Un modo di procedere forte e sbrigativo,
se si vuole, ma poco corretto. Il legislatore, cioè, sarebbe un mero esecutore
degli umori impulsivi della maggioranza popolare. Purtroppo, questo modo
d’intendere le relazioni tra rappresentanti e rappresentati travalica un po’ lo
stretto ambito politico per tracimare in molti altri settori. La stessa
medicina non ne è esente. Quante volte si sente dire in giro che il medico
dovrebbe fare il volere del paziente? Se pensiamo all’interruzione volontaria
di gravidanza, giusto per fare un esempio scevro di irritabilità, monta sempre
più l’idea che il ginecologo per definizione non possa essere obiettore perché,
così facendo, violerebbe il diritto della donna che vorrebbe interrompere la
gravidanza. Questo perché il medico non deve fare il medico con scienza e
coscienza (la sua), ma dare esecuzione pratica ai voleri del paziente. Oppure,
quando ci si rivolge ad un professionista, non si accettano le soluzioni
proposte da quest’ultimo, ma si vorrebbe che facesse quello che noi vorremmo.
Un altro esempio potrebbe essere la relazione tra i genitori e i docenti.
Sempre più non si accetta la valutazione scolastica, come se i docenti
dovessero ottemperare al volere delle famiglie …
Per come la si guardi la
questione, comunque, rimane inevasa una correlata questione: è politicamente
corretto che una comunità accetti l’istituto dell’eutanasia? La questione non è
leggera né scontata, anzi piuttosto scivolosa. E la risposta dipende dal tipo
di legame che i singoli hanno con il gruppo di appartenenza. In effetti, quando
i singoli chiedono di morire? Quasi sempre quando si sentono soli a dover
affrontare l’imminente fine della loro vita oppure a dover sopportare
sofferenze interminabili e così via. Allora, l’eutanasia appare la richiesta
politica di recidere definitivamente i rapporti con il resto della comunità. O,
per meglio dire, recidere anche in concreto dei rapporti che sono già
interrotti. Ma, in questo caso, il farmaco, l’eutanasia, sarebbe migliore del
male, le relazioni frammentarie, discontinue, insufficienti in seno alla
società? Credo di no, anche se magari alcuni singoli potrebbero pensarla
diversamente. Ma, ancora una volta, dobbiamo pensare a partire dai singoli
oppure a partire dalla comunità politica? Forse, una delle chiavi del successo
popolare di queste pratiche sta appunto nel grado di massimizzazione delle
attese dei singoli. Infatti, l’eutanasia appaga il mio volere singolo di
recidere i rapporti con questa vita e di farlo senza sofferenza. In qualche
modo, allora, l’eutanasia è il risultato del disagio politico dei soggetti,
privi di legami soddisfacenti con il resto della popolazione e frammentanti nel
mare magno della complessità. In realtà, il problema non è nemmeno dei
soggetti, i quali, in quanto tali, istanziano singolarmente la frammentazione
moderna delle comunità politiche, ma della mancanza di un pensiero politico.
Non manca la politica, anzi ve n’è sin troppa, ma la capacità di formularne
valori, principi ed orizzonti di senso condivisi. Io non ci sto, voglio
andarmene dolcemente …
Sicuramente l’eutanasia è
tecnicamente possibile. Ma è anche giusta? E qui ci addentriamo nelle
considerazioni etiche. Non bioetiche, ma etiche. E la precisazione è una
precisa scelta di campo. Abbiamo detto poco fa che l’eutanasia è, senza tanti
giri di parole, un atto che consiste nella soppressione di un terzo che ne
faccia esplicita richiesta. È, cioè, un
omicidio. Ma in ragione di una sorta di contratto tra i due non comporterebbe
conseguenze spiacevoli per l’assassino. Le parole paiono importanti: se dico
“omicidio”, l’eutanasia non pare improvvisamente tanto bella o appetibile.
L’omicidio è un insieme di azioni volutamente messe in campo per togliere la
vita ad un soggetto. Che quest’ultimo lo desideri non è davvero significativo.
E non lo è nemmeno che avvenga in regime di sedazione profonda. Un soggetto
umano uccide un altro soggetto umano. È giusto? Dubito che possa esserlo. Ma
delle tante ulteriori obiezioni che si potrebbero muovere, prendiamo in
considerazione solo un aspetto rilevante per i miei attuali argomenti etici.
L’eutanasia è tale se chi lo richiede cessa di vivere senza soffrire. La nostra
società è terrorizzata dalla presenza del dolore, e pretende che, attraverso
appositi strumenti, sia progressivamente tolta, quando non del tutto eliminata.
La cosa non deve stupire: la presenza del male nel mondo ha sempre suscitato
scandalo. La novità sta nel rinnegare questa stessa cifra della condizione
umana. Basta leggere Eschilo per avvedersene: vivere è soffrire. La vita
è, per definizione, tensione, sforzo, mancanza, … sofferenza. Perché immaginare
una vita priva di sofferenza? Perché migliore. Non si comprende allora perché
non intensificare la terapia del dolore mentre invece si invoca la morte di chi
soffre. Ora, colui che chiede l’eutanasia probabilmente non rifiuta la vita in
quanto tale, ma quello specifico e singolare tipo di vita che gli è capitata.
Forse non è sempre insopportabile o forse diventa strumento di affermazione di
un principio o diritto: la vita è mia e ne dispongo. Riflettiamoci sopra un
attimo: da sempre, i diritti soggettivi sono stati strumenti per il benessere
dei soggetti umani. Quindi, i diritti erano mezzi mentre il fine erano i
soggetti umani. Assistiamo oggi ad un proliferare di diritti la cui nota
costante è l’inversione di detto rapporto, ovvero non si pretende più che il
diritto sia riconosciuto per ampliare le sfere di libertà del soggetto umano,
ma perché ciò che conta è il principio stesso, vale a dire il diritto in quanto
tale. Ne consegue, allora, che dinanzi a diritti insaziabili lo stesso soggetto
umano, da fine diventato mezzo, venga fagocitato. E l’esempio è senza dubbio
calzante nel caso dell’eutanasia. Infatti, il diritto ingoia per intero il
soggetto che lo richiede. E, in questo caso, l’effetto è definitivo. Chi
sceglie l’eutanasia, non può tornare indietro, non può modificare le sue
decisioni. Muore. “Ma lo ha scelto lui e noi non possiamo che rispettarne la
volontà”. No, possiamo giudicarla. Ad esempio, chi ci garantisce che la sua
volontà fosse pienamente consapevole? O che non fosse in qualche modo indotta?
Immaginiamo un anziano malato in tutto dipendente dagli altri. Se questi gli
facessero pesare la sua condizione, a lungo andare non potrebbe maturare la
decisione di abbreviare la sua vita tramite il ricorso all’eutanasia? Sarebbe
libero fino alla fine? Ne dubito. Ma facciamo un altro esempio. Poniamo caso
che un facoltoso principe del foro per via di un incidente resti paralizzato
dal petto in giù e che nonostante l’assistenza puntuale e abbondante, egli
soffra del suo nuovo stato. Non maturerebbe un desiderio di eutanasia?
Probabilmente, sì. Ma sarebbe un consenso libero? Difficile dirlo, se si
prescinde dal tipo di vita che si troverebbe improvvisamente a dover condurre.
Ma, e più a fondo, si ripete, anche in un’ottica di legittimazione culturale
dell’eutanasia, che non basta vivere, che ci vuole qualcosa di più per
meritarsi la vita. Questo è un concetto pericolosissimo in ottica etica perché
separa gli uni e gli altri sulla base di un funzionalismo che non è disponibile
per tutti. Uno dei campioni più noti di questa prospettiva è senz’altro
Nussbaum, per la quale, tuttavia, permangono ancora ampi margini di liberalismo
circa le condizioni eque da garantire a ciascuno perché possa vivere, al di là
del semplice essere. Eppure, sullo sfondo si staglia sempre l’interrogativo di
fondo: l’essere dell’essere umano è uguale al mero trascorrere del tempo? Cos’è
che rende umana la vita umana? Possibile che l’essere degli esseri umani sia lo
stesso del sasso? Del fiore? Della stella? È possibile che il disagio della
modernità, che esperiamo, con i suoi eccessi di naturalizzazione della vita
umana, di animalizzazione – mi si passi il brutto neologismo – della condizione
umana, lo spaesamento innanzi alla complessità di ciò che esiste, abbia finito
con il ridurre ciò che è umano a qualcosa di poco conto? Di, in fondo,
insignificante? E tale da dover reclamare un surplus di sforzo vitale
perché la vita umana sia davvero degna di essere vissuta? Se non basta
sopravvivere, quali sarebbero gli standard superiori perché si viva? C’è chi
indica la qualità della vita, chi una soglia massima di sofferenza da patire,
chi un ventaglio di realizzazioni personali … Per Spaemann, uno tra i molti, la
differenza che corre tra qualcosa e qualcuno è la capacità che gli esseri umani
possiedono di avere contezza di essere individuali istanziazioni del genere
umano. In breve, volendo abbreviare, potremmo semplificare dicendo che gli
uomini non sopravvivono, ma vivono. E lo fanno perché la loro condizione non si
riduce ad una qualità, ad una classifica di dolore patito, ad un elenco di
obiettivi professionali da conseguire. Sicuramente, noi siamo anche
funzioni, ma non siamo le nostre funzioni. Anche perché non a tutti sono date
le medesime funzioni o lo stesso grado di funzionamento e neppure le medesime
occasioni al cui interno espletarle. Non siamo qualcosa, ma qualcuno. E questo
qualcuno non è un’isola separata dai suoi simili. Invece, l’onda possente dei
diritti moderni ha le sembianze di una sequela frammentata di pretese e di
rivendicazioni soggettive. Io voglio che …, io ho diritto a … Ma la
cornice generale dei diritti personali cade dentro una cornice di relazioni
umane. Altrimenti, tutti avremmo solo diritti, e nessun dovere. E, dunque,
vivremmo dentro una condizione sociale di ingiustizia. Eppure, sfrondato dei
nostri termini e del nostro periodare, le movenze del “partito” eutanasico sono
proprio queste: io non godo di questa mia vita, io ho il diritto di
rifiutarla! Ma non c’è soltanto l’io, ci siamo noi. Con l’eutanasia non è il
singolo che rifiuta la vita, ma è un gruppo sociale che accetta di eliminare
propri singoli. E perché mai una
comunità dovrebbe uccidere i propri membri mentre contemporaneamente condanna
singoli che uccidano altri membri? È un interessante cortocircuito: si condanna
l’omicidio quando commesso da singoli ma si legalizza l’omicidio quando viene
commesso dalla comunità. Non funziona. Non funziona nel caso della pena
capitale, come potrebbe andare bene invece nel caso dell’eutanasia? Non è
sufficiente il consenso personale perché lo sia. È l’orizzonte generale che lo
rende un disvalore.
Inoltre, per tornare all’abilismo
che renderebbe degna la vita, non tutti possono scegliere come vivere, mentre
tutti possono vivere. Allora, la vita di quanti non possono compiere quella
scelta sarebbe meno degna? Meno importante? Meno desiderabile? Immagino le
pressioni su anziani e disabili per abbreviare le loro vite, ricorrendo
all’eutanasia, al fine di rendere meno penosa l’opera di assistenza dei
familiari. Pressioni inconsce, sia ben inteso, ma pur sempre pressioni
influenti, soprattutto in quelle difficili e particolarmente onerose condizioni
di vita. E, dunque, a ben vedere, l’istituto, finirebbe per andare bene per i
pochi che davvero lo vorranno e per i tanti invece che socialmente,
economicamente, umanamente vi saranno risospinti da una comunità che non vorrà
più sostenerne il peso, una volta che si renderà disponibile quest’ulteriore
possibilità per situazioni senz’altra via di uscita. Un peso dolce e o buono
...
Vista da un’altra prospettiva,
l’eutanasia legale sembra essere una magnifica occasione per il corpo sociale
di tagliare proprie membra. Ed è ironico che ciò avvenga nell’esatto momento in
cui i più liberali credono di dare massima espansione ai diritti dei singoli.
Cessano di vivere i singoli, continua a vivere il gruppo. Chi ci guadagna di
più? I singoli? Il gruppo? Anche questa è una questione di equità, ma
contribuisce a mostrare quanto sia errata la proposta di eutanasia legale.
Probabilmente, si potrebbero aggiungere
tante altre considerazioni, ma credo di essere già abbastanza impopolare.