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mercoledì 17 settembre 2014

Aldo Moro, una storia italiana


Aldo Moro. Politica, filosofia, pensiero

(url immagine: http://giotto.ibs.it/cop/copj170.asp?f=9788831544894)

Normalmente la vicenda di Moro viene incastonata nella critica al partitismo monocolore della DC e all’eccesso di strategia letta nei termini una ricerca di mediazione fine a sé stessa, e non per raggiungere dei risultati veri e propri. Questo modo di porre le cose in merito alla dolorosa vicenda morotea non rende giustizia né all’uomo né al politico che si fusero nella persona di Aldo Moro. In tal senso, apprezzo il volume di Danilo Campanella, Aldo Moro. Politica, filosofia, pensiero, edito da Paoline, perché consente di collegare quell’esito, la strategia della mediazione, antecedente e, forse, anche causa, al suo sequestro, con le sorgenti da cui scaturì la sua stessa mossa politica, così strettamente “italiana” da venir sostanzialmente rigettata e negata. Questo perché, sotto ogni punto di vista, la vicenda, prima di tutto umana, di Aldo Moro è la vicenda stessa della nostra storia, è la medesima cifra di lagrime e sangue della nostra storia recente. Paradossalmente, infatti, e a riprova di questa mossa di rifiuto, la medesima strategia del contatto, della mediazione, della discussione, del dialogo, se si preferisce, è stata rifiutata pubblicamente negando all’uomo qualsiasi contatto con i rapitori, la strategia della fermezza in luogo di quella dell’incontro, la rigidità istituzionale a fronte dell’umana pietà.
Per comprendere il contributo prezioso di Moro all’intera storia italiana del XX secolo bisogna conoscerne la biografia, l’intero percorso intellettuale.
A prima vista, emerge con forza «la sua forte tempra morale» (p. 18), connessa ad una precisa «concezione etico-politica» (p. 18). Il punto di partenza per il suo intero itinerario è il superamento dell’organicismo idealistico, con annessa «contestazione della statolatria e della deificazione dello Stato» (p. 18); in luogo del promemoria fascista, pro patria mori, Moro oppone la sua concezione politica dello Stato al servizio dell’uomo, e «non l’uomo per lo Stato» (p. 18).
In lui è sempre presente, sin dall’età più giovane, la «tendenza all’inclusione» (p. 19), a coinvolgere «tutte le realtà popolari nei processi di democratizzazione e di sviluppo» (p. 19). Anche alla Costituente, egli intese sempre avversare ogni atteggiamento strumentale, desiderando piuttosto «favorire l’emergere di un orientamento aperto al dialogo» (p. 20). Sin da giovanissimo, «dedito alla cura dei valori spirituali e morali, ai valori assoluti della vita, alla riflessione sui misteri dell’amore e della morte» (p. 26). Forgiò così il suo carattere alla «duttilità relazionale, diplomazia nei rapporti interpersonali, tenacia nei propri intenti e gentilezza» (p. 27).
Prendere in considerazione la biografia di Moro espungendone, però, la natura di credente, è un po’ come si fa oggi: si considera il mondo come quel che rimane una volta che sia stata tolto tutto quel che fa riferimento all’esperienza di fede. Eppure, è innegabile come sin sotto il fascismo, Moro fu coerente con il suo stile di vita improntato al rapporto diretto e quotidiano con la trascendenza. Infatti, desiderò «operare cristianamente per il bene dell’umanità» (p. 29). D’altra parte, è proprio in contrapposizione con lo stile di vita fascista che ci concretò il suo muovere i passi nello spazio pubblico. In modo particolare, si scontrò con «una concezione di Stato totalitaria» (p. 36), negante la libertà umana intesa nei termini di sviluppo personale delle proprie potenzialità umane. Decisamente, lo Stato etico gentiliano, la forma par excellence della concezione fascista di Stato, produceva «disastri antropologici» (p. 37; dei quali era testimone Moro stesso. Il punto era, quindi, «ricostruire la coscienza morale degli italiani» (p. 38) attraverso un «approfondimento di valori etici» (p. 38). Innovativa, in tale contesto e progetto, fu la riscoperta di Tommaso d’Aquino con la messa al centro della «mediazione come costume politico e fondamento della cultura riformista» (p. 38) successivo al disfacimento del fascismo. L’irrompere della pluralità, come cifra costante al superamento del monolite idealistico, di stampo gentiliano, dà modo a Moro di valorizzare la nozione di mediazione, che deriva dalla sua cultura confessionale, come luogo aperto all’incontro e allo sviluppo dei talenti personali, senza preclusioni e senza divisioni ideologiche. In questo, egli è decisamente un figlio del suo tempo, ma che, com’è peraltro normale, declina a modo proprio, e in maniera originale.
Per Moro, «lo scopo del cristiano non era tanto quello di fare del mondo il regno di Dio, ma di trasformarlo in un luogo di vita pienamente umana» (p. 40) le cui coordinate di riferimento sono, in buona sostanza, «la giustizia e la libertà della persona» (p. 40). Attraverso il personalismo di Maritain, e di Mounier in modo particolare, la riflessione morotea giunge a concepire l’essere umano nei termini di una persona, vale a dire un essere «aperto agli altri, alla scoperta, al prossimo, come anche al trascendente» (p. 45). Di conseguenza, lo Stato «è da considerarsi un momento unitario di consapevolezza giuridica dell’azione» (p. 49), un momento che «non assorbe l’intera vita del cittadino» (p. 49) la quale, al contrario, «si realizza nella società e soprattutto nella vita privata» (p. 49).
Moro rifiuta decisamente la concezione contrattualista di Stato, e, quindi, anche di società, in favore di una prospettiva relazionale secondo la quale la società «è costituita dall’insieme dei rapporti che le persone stabiliscono fra loro» (p. 50) al fine di «provvedere allo sviluppo della propria personalità mediante una comunione di vita» (p. 50). Quindi, può ben dirsi come la persona sia «finalità oggettiva della società civile» (p. 51) e come la società civile preceda la persona riguardo agli obblighi e prestazioni «richieste dalla società e delle sue finalità naturali» (p. 51). Pertanto, l’uomo appare parte della società e ad essa sottomesso «per il raggiungimento del bene comune» (p. 52) e, in quanto persona, «costituisce il fine stesso della società di cui lo Stato è l’espressione» (p. 52). Forte di questi convincimenti, oltre che della sua personale esperienza di fede, Moro entrò anche nel terz’ordine dei domenicani, «assumendo il nome religioso di fra Gregorio» (p. 53).
Nella visione filosofico-politica morotea «i cittadini non vanno «accontentati» ma «guidati», senza tuttavia ingerenze ideologico-politiche o confessionali» (p. 60). Ciò basta da solo a comprendere l’importanza della mediazione nella visione politica morotea dal momento che «il continuo dialogo tra corpi intermedi va a sostituire la ricezione dei «desideri» dei cittadini da parte degli uomini politici attraverso il dialogo» (pp. 60 – 1) con costituzione di un vero e proprio «sistema ciclico, spiraliforme» (p. 61) in netta contrapposizione con quello usuale di natura piramidale. Dovendo mettere a frutto i propri doni e considerando lo spazio pubblico come luogo di profezia, e realizzazione dell’umano, Moro interpreta il pluralismo dei partiti dell’età repubblicana come positivo dal momento che essi sono strumenti «e non il fine della politica» (p. 82). Il pluralismo, dunque, non è il fine della democrazia, ma solamente una condizione affinché ciascun uomo possa progredire nella sua stessa umanità. E in tale assetto, a nulla conduce la mancanza di dialogo o di mediazione tra le parti. Nel corso degli anni sessanta, essendo ben consapevole dello sviluppo coevo della società di massa e di consumo, come effetto dell’irruente industrializzazione del Paese, Moro ritenne che bisognasse coltivare l’inclusione sociale, vale a dire le «condizioni politiche ottimali per coniugare la tutela dei diritti con il rispetto della legalità» (p. 88).
Democristiano, Moro tenne una barra politica del tutto peculiare perché a fronte della corrente dorotea, egli fu un tenace assertore di una forma di umanesimo popolare da intendersi come una prospettiva politica in forza della quale la politica viene coniugata «con la libertà creaturale dell’uomo» (p. 99). In questo senso, e discostandosi dalla linea di Murri, Moro si colloca nel solco di Rosmini e di Sturzo, posizione che trova consonanze con il pontificato di Paolo VI, amico di lunga data proprio del Nostro. Quindi, essere democristiano «non significava affatto aderire a una opzione confessionale o partigiana, ma vivificare le ragioni di una scelta ideale che arricchisce la democrazia di valori» (p. 107). Moro rifiutò le facili seduzioni del potere fine a sé stesso, che pure fu una delle componenti della DC, saldo al convincimento che coltivare la fede cristiana significasse tutelare il diritto e «lo portava al superamento di antiche delimitazioni partitiche, come conseguenza dell’universalità del messaggio cristiano» (p. 107). Da questo punto di vista, dunque, la stessa sorgente cristiana lo spinse a tutelare la libertà personale non in senso privatistico e/o individualistico, ma sempre all’interno dello spazio pubblico, integrandola cioè con «il vincolo della solidarietà» (p. 108).
Può ben sostenersi come il progetto morotiano, di società e di politica umane, provenga «da lontano» (p. 115), una lunga parabola con alti e bassi, non dipendenti, però, dalla sua volontà o dalla sua coerenza come uomo della politica e di fede.
La ricerca del contatto, del dialogo, della mediazione, al fine di andare oltre «gli stereotipi ideologici e le differenze partitiche» (p. 116) in cerca del «bene comune» (p. 116), «non venne sempre compreso» (p. 116). Ad una folta opposizione interna, anche nella sua stessa parte democristiana, si aggiunse una potente opposizione internazionale. Il suo ideale, cristiano, umano e politico s’infranse con la Realipolitik della geopolitica mondiale, e con la realtà storica della cortina di ferro. Se Moro pensò che i tempi fossero maturi per un superamento della conventio ad escludendum nei confronti del PCI, dello stesso parere non fu Kissinger il quale ebbe modo di mettere duramente in guardia Moro stesso. I due progetti di centrosinistra, o delle convergenze parallele, sebbene tentati in due differenti decenni, non piacquero, e non furono capiti.
Piuttosto, secondo Campanella, tanto Moro quanto Berlinguer furono, ciascuno per parte propria, «appaiono oggi come veri innovatori» (p. 119) dal momento che idearono un «progetto di incontro e di conciliazione» intesa nei termini di «alternativa democratica tra le forze di ispirazione socialista e le forze di ispirazione cattolica» (p. 119). Il tentativo, com’è noto, non poté realizzarsi a causa «della prematura scomparsa dello statista pugliese» (p. 119). Infatti, il 16 marzo 1978 le BR rapirono Moro. Cominciarono i cinquantacinque terribili giorni di un’autentica tragedia di Stato, durante i quali la politica nazionale si mostrò incerta e poco trasparente nella gestione dell’affaire Moro. A tratti sembrò che si aprisse qualche spiraglio, qualche flebile speranza di riavere incolume Moro, ma così non fu. Il Nostro venne assassinato il 9 maggio 1978, a conclusione di un iter iniziato con il sequestro ma probabilmente già scritto, già deciso, con un verdetto formulato prima ancora di intraprendere il rapimento stesso. Con il ritrovamento del cadavere in via Caetani a Roma, idealmente a metà strada tra le sedi del PCI e della DC, termina la stagione della speranza di una vita civile condivisa, nel rispetto dell’altrui libertà.
E tuttavia non «si assisterà ad alcuna manifestazione pubblica, ad alcuna cerimonia, ad alcun discorso, alcun lutto nazionale» (p. 139). La famiglia, comprensibilmente sconvolta dall’accaduto e offesa dall’ambigua ed opaca gestione del sequestro da parte delle istituzioni, si chiuse nel suo dolore e rifiutò la scena pubblica per i funerali del congiunto.
Aldo Moro venne sepolto con cerimonia privata a Torrita Tiberina. Invece, il Paese visse la grottesca cerimonia dei funerali pubblici, e di Stato, senza salma, un «funerale simbolico» (p. 139) per ricordare l’amico, l’uomo buono, mite, saggio, innocente, come ebbe a dire nella medesima occasione Papa Paolo VI, amico di lunga data.





La franchezza, unita all’acume nell’analisi geopolitica, fanno del testo di Campanella luogo non partigiano né agiografico per conoscere le reali direttrici dell’esperienza privata e pubblica di Aldo Moro, una lettura che non si può non consigliare se si desidera comprendere davvero il senso della nostra storia recente.

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