Il
testo di Isabella Milani, pseudonimo di un’insegnante, dal titolo L’arte di
insegnare. Consigli pratici per gli insegnanti di oggi, è interessante
sotto molti punti di vista, in modo particolare per la tipologia di lavoro che
svolgo, nei suoi alti come nei suoi bassi. Vista la sua mole, però, dovrò
limitarmi a prenderne in esame solamente alcuni punti.
In
primo luogo, un docente dovrebbe sapere che gli alunni in genere, e soprattutto
quelli “difficili”, ci vedono come ci vediamo noi, vale a dire che «comunichiamo
loro l’idea che abbiamo di noi stessi» (p. 21). Di conseguenza, avere una bassa
autostima, ad esempio, esercita una profonda influenza negativa circa il nostro
ruolo di insegnanti. Un insegnante con le idee confuse circa il proprio ruolo
non saprà mai gestire in maniera efficace una classe. Non si dovrebbe mai farsi
mancare di rispetto, così come dovrebbe esservi rispetto reciproco. Infine, un
docente non dovrebbe mai fare l’«amicone», altrimenti salterebbe del tutto
l’asimmetria del rapporto educativo.
Un
altro elemento importante, da tenere in altissima considerazione, è la
composizione del gruppo classe, vale a dire la complessità delle dinamiche
interne alla stessa. Di conseguenza, ciascuna classe è diversa, non ne esistono
due uguali. Ne deriva, ovviamente, che strategie efficaci in una classe possono
non andare bene in altre. Gli alunni presi a solo sono diversi da come si
presentano calati all’interno di un gruppo classe. Pur essendo tutti diversi,
però, gli alunni sono simili, vale a dire che rientrano in determinate
categorie o insiemi di categorie (p. 38). A ciascuna categoria corrisponde una
tipologia di alunno, dal timido al demotivato, dal prevenuto al simpaticone,
passando per i DSA, l’alunno straniero e l’alunno diversamente abile. L’estrema
eterogeneità nel processo di composizione della classe si riverbera
sull’estrema complessità delle dinamiche relazionali interne al gruppo classe
In genere, però, se si riesce a gestire gli alunni “difficili” la difficoltà
nel tenere la classe diminuisce in maniera considerevole. Il problema, infatti,
è riuscire, pur nei numeri elevati, si parla di almeno trenta alunni per
classe, ad instaurare un rapporto personale e diretto con ciascuno (p.
44). Almeno ciò sarebbe quel che
andrebbe fatto, ma non è possibile. Pertanto, la cosa migliore è dimostrare
simpatia e reale interesse per ogni alunno.
Importante
è anche la prima entrata in classe, in quel preciso istante si decidono i
destini dell’anno scolastico. Infatti, bisogna dare l’impressione «di essere la
persona che loro si aspettano come insegnante» (p. 49), preparata, che sa il
fatto suo, che li capirà, che sarà divertente, che sarà giusta. L’entrata in
classe per la prima volta è il momento durante il quale «si stabiliscono i
ruoli» (p. 54) e nulla può essere lasciato al caso. Al contrario, bisogna avere
tutta la classe sotto controllo, comunicare serenità e calma nell’imporre le
regole del rapporto, sempre evitando che si manchi di rispetto. Bisogna, così,
stabilire regole chiare e certe, pretendere un comportamento corretto ed
evitare di generare l’impressione di essere aggressivi.
Un
problema, sovente ignorato nella concreta pratica didattica, è la conoscenza
del linguaggio del corpo. Infatti, se la voce è lo strumento principale della
relazione con la classe, non si dovrebbe mai dimenticare che comunichiamo anche
con il nostro corpo ed eventuali incoerenze tra quanto detto a voce e quanto
espresso tramite il corpo abilita comportamenti scorretti da parte degli
alunni. Se gli alunni capiscono quel che pensiamo di noi stessi, anche noi
dovremmo essere capaci della stessa cosa ed anticipare i loro movimenti o le
loro intenzioni. Se comunichiamo loro come ci sentiamo o ci vediamo, bisogna
allora prestare la massima cura alla nostra immagine, dimostrando sempre
tranquillità, fermezza, autorevolezza. Dunque, se al contrario, si hanno
difficoltà con le classi, bisogna studiare la genesi di tale rapporto, come mai
si è arrivati a questo esito, cosa non ha funzionato e ingegnarsi su come
risolvere la situazione, ricercando quali correttivi siano possibili, come
migliorare il proprio portamento o il proprio ruolo in cattedra.
Un
insegnante capace è colui che appare come una guida, vale a dire una figura
«che insegna e aiuta a crescere» (p. 101), in una progressiva costruzione di
autorevolezza che si costruisce ogni giorno, anche perché sono gli alunni che
danno autorità o, meglio, autorevolezza. La disciplina non si ottiene con la
paura o con la promessa di ritorsioni, ma con la ferma imposizione di un ruolo
docente chiaro e giusto. Anche perché gli alunni di oggi sono, per lo più,
alunni educati male e vivono contesti di povertà educativa e culturale. Di conseguenza,
se l’educazione non viene loro impartita almeno a scuola, dove altro possono
incontrarla? Spesso, però, se scambiano la scuola per la pubblica piazza, la
colpa è nostra, come classe docenti, e non loro. In tal caso, «non diamo la
colpa ai ragazzi» (p. 115).
Spesso
dimentichiamo anche, colpevolmente, che a scuola non si insegnano solamente
contenuti, e che, invece, dovremmo insegnare loro un metodo di studio, quel che
serve loro per «studiare in autonomia» (p. 118). La lezione, dunque, dovrebbe
essere partecipata, costruita mediante la partecipazione attiva da parte degli
alunni, i quali, quindi, vanno coinvolti, e non un’enorme quanto noiosa
esposizione ad un megafono. I docenti dovrebbero essere «convincenti,
interessanti e autorevoli» (p. 123). Altrimenti, si pretende forse che gli
alunni studino senza merito da parte nostra? Senza impegno da parte nostra? Senza
motivazione al compito da parte nostra? Rispetto alle aule di oggi, è solo
nostalgia di un passato mitico, probabilmente mai verificatosi.
In
ogni caso, i docenti devono mettersi in discussione e analizzare bene le
proprie pratiche educative e didattiche. Al riguardo, è interessante il
paragrafo dedicato alla motivazione degli studenti. Cosa si può fare per
motivarli allo studio? La motivazione non è innata, ma va attivata e potenziata
da parte del docente che ha chiaro in mente cosa vuole fare e cosa desidera
ottenere dai suoi alunni, che combatte la noia, che non perde mai il controllo
dell’attenzione della classe e che riesce a mostrare ai propri alunni come si
studia e che chi non sa non riesce a scegliere.
Trovo
illuminante il capitolo sulla disciplina ove l’autrice sfata il mito della
diseducazione dei giovani alunni. Talvolta, a dire il vero piuttosto spesso,
«ci sono colpe che i ragazzi non hanno» (p. 188). I ragazzi maleducati sono
stati, molto più semplicemente, «educati male» (p. 189), e a nulla serve
sperare che un giorno i ragazzi male educati scompaiono dalla circolazione.
Semplicemente, non avverrà e classi con alunni simili vanno gestite, nonostante
tutto. Come? Milani propone una road map fatta di alcuni passaggi
fondamentali, In primo luogo, la lezione vera e propria non può cominciare se
non si è gestita la classe e non si è ottenuto silenzio. Se la classe non ascolta,
a cosa serve cominciare la lezione? Se l’attenzione non è attiva e rivolta al
docente, a cosa serve tenere una lezione destinata a scivolare via? L’attenzione
dovrebbe essere massima anche durante l’interrogazione alla quale, di buona
norma, dovrebbe partecipare tutta la classe e non solamente i diretti
interessati. Nel caso di classi difficili, poi, ci sono alcuni passi da
compiere, sia prima di conoscerla davvero (informandosi con i colleghi e
leggendo la presentazione della classe stilata dagli insegnanti che l’hanno
avuta in precedenza) sia pianificando nel dettaglio il primo incontro con la
classe. A questo punto, l’autrice stila un elenco di possibili situazioni
concrete di classe difficile, suggerendo anche cosa fare, quali azioni
compiere, quali strategie mettere in campo, sempre al fine di ristabilire i
ruoli e l’autorevolezza. Bisogna saperla gestire, guadagnarsi la loro fiducia,
resistere, modificare le nostre pratiche, aiutare i ragazzi svantaggiati,
interessarci loro, a come vedono e vivono la scuola, ma, in ogni caso, non
bisogna «tollerare comportamenti irrispettosi» (p. 203), nemmeno la minima
«mancanza di rispetto» (p. 203). Allora, bisogna addestrare la propria mimica
facciale, il tono vocale, ad avere le idee chiare su cosa fare e come. I
docenti devono sapere che se un alunno «si comporta così, la colpa è anche
nostra» (p. 207). La scuola deve sempre «recuperare e rieducare» (p. 207). Le
punizioni, in genere, servono a poco, quasi sempre a incrudelire il rapporto. Invece,
se «si riesce ad avere un buon rapporto con la classe e con gli alunni, non c’è
bisogno di provvedimenti disciplinari» (p. 228).
L’ultimo
capitolo è dedicato al rapporto con gli adulti, sia tra colleghi sia con il
personale ATA sia con i genitori dei nostri alunni.
Si
tratta di un volume che presenta una serie di suggerimenti pratici in vista di
situazioni concrete e reali, a differenza, ad esempio, delle situazioni
idilliache ma irreali della teoria pedagogica e/o didattica accademiche. Non un
manuale di sopravvivenza nelle classi complesse di oggi, ma qualcosa che vi si
avvicina e che mette in chiaro i difetti del ruolo docente ma anche cosa si
potrebbe fare per invertire la china e per ribadire la centralità della scuola
nella formazione ed educazione dei nostri giovani male educati e soverchiati da
moltissimi modelli negativi enfatizzati dai social e mass media.
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