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mercoledì 23 aprile 2014

Una recensione ...


S. Petrosino, Le fiabe non raccontano favole. Credere nell’esperienza, Il Melangolo, Genova, 2013, pp. 98, € 12,00


L’idea di fondo della presente trattazione è che le fiabe danno un nome al possibile consentendo di parlare dell’impossibile che giace sul fondo di qualsiasi esperienza umana. Non tutto appare dicibile nell’esperienza umana, soprattutto quella quotidiana, costellata da dubbi, incertezze. latenze, paure, seduzioni, contraddizioni, e così via. Elevare a dignità di parola, invece, consente al soggetto di «uscire dalla circostanza che lo inchioda alla nuda vita» (p. 11), emancipandolo dal limite stesso del vivere e consentendogli di cogliersi non solamente nei termini di «un mero vivente» (p. 11).



Questa è la verità più certa intorno all’umano: il soggetto è certamente un individuo, ma «non si risolve mai nell’esserlo» (p. 11), la sua esistenza «si dispiega e si afferma secondo delle modalità d’essere che non sono più quelle che caratterizzano l’individuo» (p. 11). Attraverso la narrazione, l’esperienza viene raddoppiata, e nel mostrare quanto accade, il soggetto si eleva al di sopra del suo mero esistere, cogliendosi come un soggetto umano, e non semplicemente nei termini di un essere vivente.  La narrazione, dunque, si pone come antidoto alla mera processualità del vivere e come possibilità concreta di liberazione per il soggetto umano, un potente strumento nelle sue mani per costruirsi nei termini di una persona. A condizione, però, che riesca a dire l’indicibile, che riesca a nominare l’innominabile, che elevi alla dimensione del dire quell’impossibile che, proprio perché tale, è privo di consistenza, è estraneo alla dimensione ontica descrivibile. Peraltro, la parola è «il luogo originario dell’abitare all’interno del quale e grazie al quale il sentire si trasforma nell’esperire» (p. 12). La parola, dunque, mette in contatto con l’altro da sé, in quanto «sempre abitata ed inquietata dal rinvio all’altro» (p. 13), essa è tanto strumento quanto fine dell’esperire. E del fluire immediato del tempo, espressione di una trama, di nessi di esistenza. Infatti, «l’esperienza è parola e risposta» (p. 15), non per ordinare l’esperienza, compito di per sé indisponibile, ma nuova vita della propria esperienza.



Narrare ad altri la propria esperienza significa, né più né meno, ri – viverla «come altra» (p. 16). Così, può ben dirsi che «nel racconto abita l’esperienza» (p. 16), che attraverso il racconto «il soggetto abita la propria esperienza» (p. 16). Questo narrare, che è nel tempo stesso, ri – provare la propria stessa esperienza, di per sé non attuale perché passata, adopera parole, ossia un luogo del soggetto che «chiama sempre ed ovunque una risposta» (p. 19). Raccontare non è, allora, una fuga nel sogno, un isolarsi nell’immaginazione, un evadere dalla realtà e dalla relazione con altri, ma, al contrario, un mettere in azione la «scena dell’intersoggettività» (p. 19). Infatti, i soggetti non parlano solamente per comunicare qualcosa, un pensiero, una tesi, un’idea, un ricordo, un’emozione, ma per provare una soddisfazione, un godimento, per «poter continuare a godere» (p. 27). Seguendo Lacan, Petrosino giunge a questo filone interpretativo sia del linguaggio sia della logica interna delle narrazioni, o del gioco del narrare.



Il linguaggio è il modo d’essere del soggetto, è il luogo del godimento. Ma le fiabe, che tramite il linguaggio sono narrate, a cosa servono? Per Petrosino, esse «non temono l’esperienza» (p. 37), ma «fanno di tutto per dare voce a delle verità» (p. 37), altrimenti prive di parola, prive di espressione, prive di indicazione verbale. Verità al fondo dell’esperienza e, per ciò stesse, trascendenti quest’ultima. Ma come poterle, dunque, e di conseguenza, esprimere? Narrare? Mostrarle? Indicarle? A questo servono le fiabe, non a sollazzare chi le legge o ascolta, ma a attrarre all’interno del linguaggio le verità indicibili dell’esperienza. Il soggetto, infatti, fa «esperienza dell’impossibilità stessa di tradurre tutta la sua esperienza in un concreto e trasparente atto comunicativo» (p. 41). Al rigore e alla razionalità lessicale sfugge la verità non verbale dell’esperienza umana, sfugge la trascendenza della verità esperienziale stessa, manca la capacità di dire quel che l’esperienza comunica. L’esperienza è, per il soggetto, «luogo di parola/parole e al tempo stesso come un luogo, segreto, di radicale solitudine» (p. 41). Ecco come si consuma il dramma del soggetto umano. Egli abita la parola, come luogo designato di «verità del soggetto» (p. 44), ma sconta l’impossibilità stessa di elevare a dignità linguistica le profonde e trascendenti verità della sua stessa esperienza. Pur anelando a queste ultime, e pur cercando con animo puro di dirle, egli s’inganna, egli produce solo menzogne. Narrandosi, il soggetto finisce quasi sempre con il raccontare «una storia che non è affatto la sua» (p. 44). Nella narrazione, dunque, il fatale gioco degli attori della personalità umana prendono il sopravvento perpetrando la medesima opera di occultamento delle verità dell’esperienza che ben conosciamo.



A questa ferale contesa, sfugge la fiaba, come modalità narrativa che non cede alle lusinghe degli attori della personalità e lascia essere alcune verità inconfessabili dell’esperienza umana, che lascia emergere queste ultime, che non occulta più di tanto quel che altrimenti la psiche eviterebbe bene di dire. Ora, le «fiabe non pretendono in alcun modo di dire tutta la verità sull’esperienza umana ma si accontentano di portare alla luce solo alcuni snodi essenziali […] del vissuto soggettivo» (p. 49). La fantasia che alimenta le fiabe, è «strumento per eccellenza attraverso il quale esse, pur restando racconti di finzione, parlano della verità stessa del soggetto» (p. 49). Nel loro articolare parole, che stanno per finzioni ed oggetti simbolici, cui rinviano le inconfessabili verità del soggetto che fa esperienza, le fiabe tentano «di rispondere all’impossibile che si agita al fondo di quell’esperienza che il soggetto abita più come ospite che come padrone» (p. 51). Di sicuro, però, le fiabe «non sono dei racconti per bambini» (p. 51).



La fiaba mira all’essenziale dell’esperienza umana, e, dunque, «semplifica e tipicizza» (p. 52). Nel favolistico, quindi,  il fantastico non appare mai «fine a se stesso» (p. 53), presentandosi, piuttosto, come al servizio «di quel vissuto esperienziale di cui vuol essere la voce» (p. 53). In genere, essa narra di un viaggio, quello eterno del soggetto in quanto tale il quale non ha mai deciso «di venire alla vita» (p. 54) e che, comunque, non può «vivere da uomini senza decidere di esserlo» (p. 54). Il rimosso o nascosto o celato al fondo di ogni esperienza umana, quell’impossibile verità che è tale proprio perché non contempla la possibilità di venir detta mediante parole né di essere imbrigliata in alcun ordine lessicale o di conoscenza, trabocca nel simbolismo favolistico, lasciando che un barlume di verità emerga dal racconto, di viaggio, di trasformazione, di accettazione di quel che (già) si è. Questo occorre a Cappuccetto rosso e, in misura analoga, ma non uguale, a Biancaneve. Si narra di iniziazioni primordiali, di primitivi rituali di accettazione della condizione umana che è scandita dal passaggio attraverso fasi differenti. La fiaba narra, dunque, di «una metamorfosi» (p. 58). Viene, cioè, narrata la trasformazione di una bambina in una donna. E questo perché uomini non si nasce, ma lo si diventa, gradualmente e tra mille difficoltà. Ma altre figure affollano la scena, il lupo, simbolo del maschile tentatore e pericoloso, la nonnina, simbolo della maturità femminile, insensibile alle lascive lusinghe del lupo, il cacciatore, il simbolo del maschile che accudisce e protegge moglie e prole …



Che verità narra la favola di Cappuccetto Rosso? Sicuramente, che una cosa è il tempo della natura, il divenire naturalmente donna, e un’altra cosa è il tempo dell’esperienza, il sentirsi e vivere consapevolmente da donna, il primo non coincide con il secondo (p. 69). Il bosco, il suo perdersi labirintico, non può essere evitato, è là e bisogna pur attraversarlo se si desidera evolvere a forme ulteriori di esistenza. Bisogna, cioè, «prestare particolare attenzione al richiamo della foresta» (p. 73), tanto «voce del sangue» (p. 73) quanto «sangue stesso in quanto unica parola e voce» (p. 73).



Anche Biancaneve narra di antichi riti di passaggio, di perenne metamorfosi umana. Facendosi memoria di ciò, la favola omonima esprime questa verità intima, di per sé indicibile, e, quindi, impossibile. Ma tematizza anche, e in misura diversa da Cappuccetto Rosso, il tema della contesa tra donne, della relazione con l’altro, e della possibilità dell’invidia. La strega invidia Biancaneve secondo un cliché ben noto. L’invidioso, infatti, soffre di fronte all’espropriazione non di un bene, che peraltro non gli è mai appartenuto, «ma di un possibile che originariamente gli apparteneva» (p. 82). Vederlo realizzato in altri significa soffrire per un possibile che ha cessato di essere tale. La regina è matrigna, ma non madre e scoprire l’avvenuta maturità sessuale della figliastra riattiva la memoria «della maternità mancata» (p. 84). Certo continuerà a regnare come regina «ma non più, mai più come madre» (p. 84). La regina è invidiosa, non gelosa, non brama la bellezza di Biancaneve, ma la «sua nascente fertilità» (p. 84). La visione di quest’ultima «le fa venire alla mente ciò che anch’ella avrebbe potuto essere e che ormai non potrà più essere» (p. 84). Quel che vede nello specchio e che attiva la sua invidia, non riguarda il passato o il presente, ma «un futuro» (p. 84), l’essenza stessa del suo futuro, non divenir mai madre. Mentre i nani, uomini senza fallo, proteggono Biancaneve dalle insidie della pericolosa rivale, solo il Principe presenta tutti i caratteri necessari alla definitiva trasformazione in donna di Biancaneve. Per essi, infatti, Biancaneve è davvero morta, avendo scelta la parte rossa della mela, essa «mette fine alla sua storia con i nani» (p. 91), aprendo, invece, «alla storia con un altro uomo, con un uomo – uomo» (p. 91). Il Principe «non solo vede Biancaneve […] ma la guarda, riconoscendola così come donna» (p. 92). Il significato finale della favola è presto detto: i desideri cattivi non sono solo quelli «dal contenuto cattivo» (p. 93), ma «anche quelli che si affermano con ostinazione, ad ogni costo, per l’appunto fino alla morte» (p. 93).



Le fiabe, dunque, non raccontano favole, ma, al contrario, narrano l’esperienza.



post scriptum



Caro Ugo Marchetta, con la presente, considero estinto il mio debito nei tuoi confronti ...



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