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venerdì 3 maggio 2013

Babele. Quale colpa?



Il narratore biblico narra l'episodio della Torre di Babele nel libro del Genesi (XI, 1 – 9) e nella vulgata popolare è passato il messaggio secondo il quale Dio avrebbe punito gli uomini, rei di aver voluto salire in cielo sino a Dio stesso, con la dispersione delle lingue. Da qui in poi il termine babele avrebbe significato, per l'appunto, la pluralità di lingue, culture, idiomi, abitudini, costumi, e così via.


Io non sono esattamente un teologo e poco so di linguaggio biblico, però mi pare come non sia affatto veritiera questa interpretazione, diciamo così pop. Infatti, non emerge in modo chiaro quale sia la vera colpa degli uomini. E, d'altro canto, è invece chiaro che la dispersione, che il narratore indica come punizione divina, non è per nulla la sanzione negativa alle colpe umane nel caso in esame. Infatti, la lista di discendenti di Noé (Gn X, 1 - 31), che precede il racconto della torre di Babele, mostra chiaramente come i popoli fossero già dispersi sulla terra, e come gli uomini parlassero già più lingue ed usassero già più costumi. Questa semplice constatazione viene confermata dalla successiva lista di discendenze che segue il racconto in questione (Gn XI, 10 e sgg.).


Allora è lecito porsi la domanda: qual'era la colpa dei costruttori della Torre di Babele? É, infatti, scontato come il presentarsi di una punizione, da parte di Dio, sia conseguente ad una colpa in precedenza commessa. Se, pertanto, Dio punisce gli uomini, per quale ragione avviene ciò? Qual è siffatta colpa? Il narratore ci dice che tutta la terra “aveva una sola lingua e le stesse parole” (Gn XI, 1) e che gli uomini si stabilirono “nel paese di Senaar” (Gn XI, 2), avendo emigrato da Oriente. Dietro la simbologia biblica, si cela forse l'oscura reminiscenza di un passato nomade che vede il popolo eletto girovagare nell'area dell'attuale Vicino Oriente, a contatto con popoli dalle usanze nettamente differenti. Divenuti stanziali, questi uomini presero a produrre dei mattoni (Gn XI, 3) e dopo cominciarono a costruirsi una città (Gn XI, 4) e in questa anche una torre, “la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Gn XI, 4). In questa sequenza non emerge colpa alcuna, semplicemente gli uomini stanno facendo quanto Dio ha consentito loro di fare: utilizzare i talenti ricevuti per trarne frutti.


Utilizzando l'intelligenza, si costruiscono una città. Il fatto che costruiscano una torre al fine di non venir confusi con il resto dei popoli vicini non deve trarre in inganno: era comune infatti in quell'area edificare delle torri, ossia delle Ziqqurat, che identificassero bene ciascuna città. Ma costruire una ziqqurat non è certo una colpa né tantomeno può esserlo volersi distinguere dagli altri popoli, evitando cioè che il proprio nome venga confuso con quello di altri popoli.


(immagine tratta da: https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9O2h6wk_VJ58F7WHuBHK4YWDHgLhg8PvbeDWrLW-kxgYaibQiBO_WFXEvMX5E8S6J898dvBoDD2iRlsckgeGJeWSKz6CBZ_372dQscJE_7Ik4cXWlH66qRU88BwQiMbTNDpQCZYkHNsI2/s400/ziqqurat.jpg)




Se così stanno le cose, non si comprende come mai Dio, improvvisamente, scenda a “vedere la città e la torre” (Gn XI, 5) per affermare che “essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque, e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro” (Gn XI, 6 – 7). Vigendo il classico meccanismo dell'etica ebraica della corresponsione (a tanta colpa tanta sanzione), qual è dunque la colpa degli ebrei antichi? Dei discendenti di Noè?



La posizione tra due liste di discendenze, però, suggerisce l'idea di un doppione, che cioè il presente racconto narri, in forma diversa, un episodio già avvenuto, sotto altre forme. Per questo motivo, l'indicazione netta della colpa commessa è dovuto ad una sorta di refuso: originalmente c'era, adesso manca perché omesso in fase di raccolta delle diverse narrazioni confluite nella stesura complessiva del Genesi.


Molto probabilmente, credo che il racconto della Torre di Babele sia una versione differente del medesimo racconto delle origini. Il narratore biblico descrive in altri termini la natura della colpa umana, ossia il medesimo peccato di Adamo ed Eva, la colpa forse più antica e più grave.



Dio scende due volta a visitare gli uomini, una prima volta valuta la vita mortale mentre la seconda volta materialmente punisce gli uomini con la dispersione “su tutta la terra” (Gn XI, 8).



L'immagine di Dio che scende materialmente sulla terra, tra gli uomini, è frequente nei racconti biblici, e, in modo particolare, la ritroviamo nel racconto di Adamo (Gn III, 8). Dio scopre che gli uomini hanno infranto la promessa fatta, si sono resi colpevoli della colpa peggiore che possa esserci: farsi come Dio. Questo è il senso del peccato originale, il significato della colpa dei progenitori, pretendere di sostituirsi a Dio. Non è forse questo quel che il serpente suggerisce ad Eva? Diventare come Dio, avendo coscienza del bene e del male? La narrazione biblica lascia pochi dubbi al riguardo (Gn III, 5).



Ci troviamo, dunque, di fronte ad una diversa versione del medesimo racconto? Probabilmente sì, anche se non disponiamo di alcuna certezza al riguardo e balbettiamo davanti ai racconti dell'origine. Ma del medesimo parere è certamente Ercoleo la quale scrive in modo netto “il celebre racconto della “torre di Babele” rappresenta un'altra versione del peccato originale” (M. Ercoleo, Una lettura teologico – filosofica dei primi capitoli della Bibbia, Edizioni della Fondazione Nazionale «Vito Fazio Allmayer», Palermo, 2000, p. 100).



Allora, Dio non punisce gli uomini per il loro ingegno, che pure è un dono divino, né per le loro capacità, altro dono divino, ma perché hanno preteso di agire, ossia vivere, come Dio.




Il sicut non rende, però, bene l'idea. Il peccato non è vivere ad imitazione di Dio e, forse, nemmeno invidiare la divinità. Ma il voler vivere senza Dio: essere come Dio significa poterne fare a meno. Adamo ed Eva, dopo aver mangiato del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male (perfetta simbologia biblica della conoscenza morale) sono come Dio, nel senso che, come Dio, anche loro adesso conoscono la differenza tra bene e male. Tant'è vero che ora sanno di essere nudi, ne provano vergogna e cercano addirittura di nascondersi agli occhi di Dio (Gn III, 8). Ma non possono sfuggire all'Onnipotente e vengono puniti per la loro colpa.


Così accade anche agli uomini di Babele: sebbene potenti, subiscono inesorabile la loro punizione. Ma mentre Adamo ed Eva peccano personalmente, ossia individualmente, nelle loro distinte personalità, gli abitanti di Babele peccano collettivamente (M. Ercoleo, op. cit., p. 100).


Questi misteriosi uomini si raccolgono attorno ad una torre e cercano di opporsi con tutte le loro forze all'omologazione del loro ambiente geografico. La loro colpa è, dunque, chiara: Elohim “ha comandato all'uomo di allargare i confini, di espandersi su tutta la terra” (M. Ercoleo op. cit., p. 103) ma loro “sembrano volersi rinchiudere in un progetto di autonomia egoistica” (ibidem).



Babele non significa, come erroneamente si crede, “confusione” o “pluralità di lingue”, ma semplicemente “porta di Dio” (M. Ercoleo, op. cit., p. 103). La colpa dei babelisti non è la costruzione della torre e nemmeno voler parlare una sola lingua, ma chiudersi nel loro recinto e fare a meno di Dio, ossia il peccato dell'uomo che crede di “poter bastare a se stesso” (M. Ercoleo, op. cit., p. 104).


Il riferimento del narratore ai pensieri di Dio sulla torre, molto probabilmente, sono il frutto della messa alla berlina, da parte del narratore stesso, della consuetudine dei popoli del Vicino Oriente i quali edificavano imponenti costruzioni in mattoni che si ergevano verso il cielo, simbolo “della protervia umana che pretende di fare a meno di Dio” (M. Ercoleo, op. cit., p. 104).

La fusione dei vari registri, consente la stesura finale del racconto in questione: Dio punisce gli uomini per aver preteso di fare a meno del Creatore.


La torre è solo il simbolo dell'arroganza umana e il suo racconto la messa alla berlina delle pretese ridicole degli uomini.


Il Cielo non può mai essere preda degli appetiti mortali.



La confusione, o dispersione, che il narratore fa seguire alla costruzione della Torre di Babele, allora, è solo la ripresa del filo narrativo originale, a seguito del peccato di Adamo ed Eva e presente anche nella ripopolazione della Terra a seguito del Diluvio.



Babele indica, allora, solamente, l'arroganza umana che vorrebbe essere come Dio, autosufficiente, bastevole a sé stessa, chiusa nella sua autonomia. Ma così non è, e gli uomini ne pagano il fio.








(immagine tratta da: http://www.filippin.it/casar/images/big/babele.jpg)



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