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venerdì 24 aprile 2015

La filosofia antica (secondo Centrone)



Recensione brevissima a: B. Centrone, Prima lezione di filosofia antica, Laterza, Roma - Bari, 2015, pp. 204






(url immagine: http://www.laterza.it/immagini/copertine-big/9788858117262.jpg)

Centrone si propone di indicare le condizioni di «nascita della filosofia» (p. 3), vale a dire i momenti salienti di fissazione «di un lessico specializzato» (p. 4). Dunque, può dirsi come non sia suo compito fornire non una sintesi generale «di filosofia antica» (p. 4), ma al più una semplice introduzione. 


L’autore scorre avanti e indietro nel tempo la cultura greca, dai primordi omerici sino ai due autori massimi dell’antichità, vale a dire Platone ed Aristotele. Il leit – motiv è, comunque, l'individuazione della «capacità di astrazione» (p. 18) in virtù della quale consente la costruzione «del lessico fondamentale della filosofia antica» (p. 28), alla cui analisi dei termini principali si dedica appunto l’autore.


La prima questione da affrontare è il termine philosophia. Centrone ne definisce i contorni semantici attorno al significato noto di filosofare «amare la sapienza» (p. 32). La sapienza è «conoscenza e contemplazione dsinteressata della natura» (p. 37) mentre il filosofo «è colui che ama questa sapienza» (p. 37). Pertanto, la sapienza mostra il suo volto non strumentale. Allora, il lemma philosophia consente due diverse interpretazioni sulla base della sua etimologia, «desiderio di un sapere che non si possiede» (p. 46) oppure «amore disinteressato per un sapere che si può arrivare a possedere» (p. 46).

La seconda questione verte sulla controversia tra i sophistès e la correlativa condanna platonica. Se l’emergere della filosofia come nuova forma del sapere comporta «una nuova semantica del termine» (p. 48), non può certo dire che ciò sia accaduto senza contrasti. Esempio lampante ne sia la diatriba tra i sophistès e i philosophoi. Eppure, suggerisce l'autore, il problema è dato dalla etimologia di sophìzesthai, escogitare stratagemmi. Da qui è evidente pertanto «lo scivolamento al negativo» (p. 49) del termine stesso. Il sofista è colui che escogita stratagemmi, colui che adopera «argomenti capziosi» (p. 49). E da qui derivano le «sofisticherie o sofismi» (p. 49). Platone cerca di definirne meglio i contorni. Eppure, vi riesce solo in parte perché i sofisti e i filosofi condividono un patrimonio lessicale e culturale comune. Nel Sofista Platone descrive il metodo dialettico dei sofisti, ma concede pure qualcosa all’agonismo della contesa polemica così come al procedimento dell’èlenchos che «ricorda le pratiche refutatorie tipiche dei sofisti» (p. 52). E comunque Platone ne proclama la condanna definitiva, il sofista è «un produttore e un venditore di false immagini, di illusioni nei discorsi, ma soprattutto un ignorante che a dispetto della sapienza evocata dal suo nome, non ha una reale conoscenza di ciò di cui parla» (p. 54). La storia della contesa tra i sophistès e Platone è, sotto molti punti di vista, istruttiva perché mostra un processo di «trasformazione semantica» (p. 55) di termini preesistenti in nuove costruzioni e nuovi significati.

La terza questione è l’essere. La questione ontologica nasce quando «si passa a domandare in che consista per le cose il loro essere» (p. 56). Dalle riflessioni dei primi naturalisti sull’essere delle cose discende l’interrogazione sui diversi sensi in cui si dice che qualcosa “è”. La questione dell’essere, allora, consiste nell’esplorazione dei diversi «significati dell’essere» (p. 57). A dispetto delle attese, il problema ontologico è assente in Parmenide ove l’essere viene inteso nei termini di hèn e synechès, ossia «le cose che sono costituiscono un’unica totalità ininterrotta» (p. 62). Piuttosto è in Platone che la questione raggiunge una sua individuazione e precisazione, perché il filosofo introduce per primo «una definizione (hòros) dell’essere che può essere considerata una risposta […] al problema di fondo» (p. 65). E ciò viene fatto in relazione alla sistemazione linguistica del termine usìa che esprime «l’esserci delle cose» (p. 68), l’essenza di queste ultime. S0lo così si perviene alla nominalizzazione della domanda “che cos’è X? Ne deriva come il termine usìa sia tanto il predicato di una cosa quanto il soggetto di una cosa. Tale duplicità semantica regge l’ambiguità del discorrere socratico. E tuttavia lo stesso indica un superamento della filosofia aristotelica per la quale, al contrario, l’usìa «è sostrato ontologico delle proprietà e soggetto logico» (p. 76).

La quarta questione è la semantizzazione del termine alètheia, verità. Il momento iniziale è la contrapposizione tra la verità da un lato e la falsità dall’altro lato, che spinge nella ricerca di una sua compiuta definizione. Ed è «solo in Platone e Aristotele» (p. 81) che si «ha la formulazione di una teoria» (p. 81). In Platone, alètheia «non è una verità logico-proposizionale» (p. 89), una conformità del discorso alla realtà, «ma una verità ontologica» (p. 89), vale a dire che nel discorso platonico vero significa reale. E questa stessa concezione ontologica della alètheia «convive in Platone con la prima formulazione di una teoria della verità come corrispondenza» (p. 92). È, però, in Aristotele che «si compie la definitiva separazione tra verità ontologica e verità logico-proposizionale» (p. 93). Riprendendo infatti un possibile uso della lingua greca, nello stagirita l’essere significa l’essere vero, così come il non essere significa il non essere vero. Così, nella Metafisica, «vengono fornite precisazioni definitive» (p. 93), in virtù delle quali il vero e il falso «non sono nelle cose» (p. 93), «ma nel pensiero» (p. 93) e riguardano la connessione, sýntesis, e la divisione, dihàiresis. In altre parole, il vero è «l’affermazione di ciò che è congiunto e la negazione di ciò che è disgiunto» (p. 94). La possibilità contraria identifica il falso.

La quinta questione riguarda la conoscenza. I protagonisti della conoscenza sono «il soggetto e l’oggetto» (p. 98), in una polarità per noi moderni del tutto ovvia. Tuttavia, si tratta di «uno sviluppo tardivo» (p. 98). In Omero nùs sembra designare ancora «un organo fisico» (p. 101) mentre in altre fonti «ha già un significato astratto» (p. 101). In Empedocle, invece, il noèin «è sempre relativo a un oggetto di pensiero» (p. 102). Il processo di riconoscimento dell’attività noetica farà «emergere progressivamente la potenziale autonomia del nùs» (p. 102). In Aristotele si assiste ad una vera e propria stabilizzazione del «significato di osservazione o contemplazione» (p. 105). Dalla metafora visiva si giunge, pertanto, alla theorìa, categoria fondamentale per tutta la filosofia. Ma accanto alle metafore visive, giocano un certo ruolo anche le metafore tattili le quali consentono di codificare la categoria di epistème la quale «designa sia il fenomeno della conoscenza nella sua processualità, sia una disposizione dell’anima, sia una modalità stabile del sapere» (p. 107). La polisemia del termine certo rende conto della pluralità di sfumature della categoria in questione. Nel Fedone sono presenti queste caratteristiche, anche se il suo spazio semantico non comprende ancora la stabilità del sapere scientifico. Tuttavia, nell’allievo di Socrate, prevale la prospettiva in virtù della quale la riflessione sulla conoscenza si svolge in polemica con l’opinione, vale a dire con la dòxa. Con Aristotele, infine, si assiste alla definitiva sistemazione concettuale.

La sesta questione riguarda il bene. In merito, appare bene osservare come non si tratti di invenzione di termini nuovi, ma di una definizione formale delle nozioni fondamentali. Dei vari significati originari, Aristotele contribuisce, anche stavolta in maniera definitiva, «stabilendo che bello in quest’ambito è ciò che è oggetto di lode, in quanto degno di essere scelto di per sé» (p. 137). Nella cultura greca, infatti, è attivo il collegamento tra bellezza esteriore e bellezza interiore. Tuttavia, l’originalità della riflessione filosofica antica «consiste nell’aver elaborato [...] un criterio fondamentale di moralità dell’azione, quello dell’intenzionalità dell’agente» (p. 148).

La settima questione riguarda l’anima. Essa viene intesa nei termini di «sede delle facoltà razionali» (p. 150). Non a caso, l’etimologia ravvisa un collegamento tra il termine, psychè, e il verbo psýchein. Tuttavia, la sua concezione nei termini di «centro coordinatore sia delle funzioni vitali di base che della vita intellettuale ed emotiva» (p. 151) non si avrà prima di Platone. Nei poemi omerici, la morte «comporta l’abbandono del corpo da parte della psychè» (p. 153) la quale esce attraverso la bocca, ossia «la via attraverso la quale passa il respiro» (p. 153). La morte, quindi, è la cessazione del respiro. Eppure, nella cultura greca sopravvive una versione secondo la quale la psychè sopravvive alla cessazione del respiro. Tuttavia, si tratta di una sopravvivenza poco nobile perché la gloria dei defunti è di gran lunga inferiore a quella dei mortali. In altri termini, la vita post mortem «è un simulacro di vita» (p. 156). L’idea di una sopravvivenza alla morte è molto antica nella cultura greca, e possiamo senza dubbio attribuirla anche a Pitagora, sia pure nella forma della metempsicosi. Tuttavia, è solo con Eraclito che diviene «visibile una distinzione precisa tra corpo e anima» (p. 162). Platone «elabora per la prima volta una teoria in cui la psychè diviene il centro coordinatore delle varie funzioni sino ad allora separate da organi differenti» (pp. 164 – 5). Ne consegue, pertanto, che essendo la psychè «ciò che apporta la vita» (p. 165), «non potrà mai partecipare del suo contrario, la morte, e dunque sarà immortale» (p. 165). L’anima diviene progressivamente, allora, «il vero soggetto del percepire» (p. 166), «il soggetto della vita morale» (p. 167). L’evoluzione del concetto giunge così alla sua sistemazione definitiva come avente «una sua consistenza sostanziale» (p. 168), una «sua esistenza separata» (p. 168). Aristotele, invece, rovescia la riflessione secolare al riguardo, considerando la psychè «solo come attualità di un corpo» (pp. 168 – 9), negandole, dunque, l’immortalità.

L’ottava questione affrontata è quella del lògos, «il termine più variegato del lessico filosofico» (p. 170), e che indica «un modo specifico di parlare che obbedisce a certe regole» (p. 171). Per Aristotele, nei filosofi precedenti è mancata la dialettica, vale a dire la «ricerca della definizione» (p. 172). Le indagini precedenti difetterebbero della ricerca della «essenza delle cose» (p. 172). Con Platone, invece, registriamo una svolta perché viene introdotta la dottrina delle idee. Socrate andava in cerca di una definizione delle cose, ossia della loro «causa formale» (p. 174), dal momento che chiedeva ragione delle cose. Ora, dare «ragione di qualcosa (lògon didònai) […] significa fornire il discorso che esprime ciò che una cosa è, la sua usìa o essenza» (p. 175). Il lògos, pertanto, è la definizione, o «sua ragione formale» (p. 175). Nel Fedone si vene bene come il metodo d’indagine «basato sui lògoi» (p. 179) sia l’unico «che permette di indagare e definire l’essere e l’essenza delle cose» (p. 179). Dare conto del principio formale delle cose «rappresenta per Aristotele la sostanza delle cose» (p. 181).

L'opera presente di Centrone, dunque, si configura come un'utile prefazione alla storia vera e propria della filosofia antica che, però, ha l'indubbio vantaggio di storicizzare i processi di semantizzazione di molti concetti e molti termini divenuti solo in seguito patrimonio comune del discorso filosofico.

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