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venerdì 13 febbraio 2015

Che fine farà il sostegno scolastico?



Scorrendo la proposta di legge presentata nella versione di Ottobre 2014 da FISH e FAND, salta agli occhi l’art. 4 il quale, ad un’attenta disamina, sembra prefigurare la nascita di una classe di concorso specifica e dedicata al sostegno scolastico. Condizione per accedervi è, addirittura, la laurea magistrale di pedagogia e didattica speciale. I commi (7) e (8) mirano a imporre restrizioni alla possibilità per i docenti in organico di diritto, vale a dire assunti a tempo indeterminato sui posti disponibili, di “fuggire” dal sostegno verso altri insegnamenti.
Tralasciando le ovvie finalità dei formulatori della presente proposta di legge, si rendono doverose alcune considerazioni, specie da chi si trova già in ruolo e conosce il sostegno scolastico “dall’interno”, vale a dire nel concreto farsi delle cose.

Prima considerazione. Il futuro insegnante di sostegno viene visto non più come un “tuttologo” che cerca di mediare gli apprendimenti curriculari, ma come l’esperto biomedico. Ne consegue, probabilmente, salvo sorprese o modifiche in sede di conversione in legge della stessa, che il docente di sostegno diverrà a breve un mediatore speciale. Una sorta di assistente alla mediazione didattica tra la classe e l’alunno disabile. Se così fosse, non parlerei di progresso del ruolo del sostegno didattico ma di mero scadimento in una sorta di servizio alla persona. Ma se così è, non  appare allora punitivo imporre ex lege il conseguimento di un titolo formativo così “alto” e dispendioso? Vero è che i disabili sono, prima di ogni cosa, persone e, dunque, necessitano di supporti adeguati per superare gli ostacoli socio-culturali che ne impediscano il concreto sviluppo, ma perché il docente di sostegno dovrebbe divenire un simbiotico badante? A quale pedagogia speciale corrisponde tale assunto? Credo, in tutta sincerità, a nessuna. E se così è, a cosa si dovrebbe addebitare tale investimento emotivo da parte delle associazioni dei disabili e dei loro familiari? Ho una risposta anche a tale interrogativo, ma vi arriverò in seguito.



Seconda considerazione. L’art. 5 contempla l’aggiornamento alle tematiche e tecniche del sostegno per il personale curriculare. In modo particolare, il comma (3) impone ai docenti in anno di prova il conseguimento di almeno 30 CFU sull’«inclusione scolastica». Anche qua si evince una tendenza “punitiva”, forse eccessivamente rigorosa sui futuri operatori dell’inclusione scolastica. Il seguente comma (5) estende tale tendenza imponendo a tutti i docenti con alunni disabili nelle loro classi di frequentare almeno un corso annuale “sugli aspetti della didattica dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri bisogni educativi speciali non inferiore a 25 ore” tenuti da Università. Problema: chi sarà chiamato a foraggiare tale imposizione ex lege di formazione di livello universitario? La P.A. forse? Non scherziamo. Al massimo, potrebbe darsi il caso che se ne facciano carico singole istituzioni scolastiche particolarmente “illuminate” e “ricche”. Tutte le altre, ovviamente, non potranno. E, dunque, sarà infine il medesimo operatore scolastico, già vessato sotto altri aspetti e per altri capitoli di spesa, a doversi sobbarcare anche questo ulteriore onere formativo. È giusto? Chissà! Il comma (6), poi, impone l’uso ad hoc delle ore funzionali all’insegnamento: “programmazione per una presa in carico collegiale della didattica della classe”. Questo, forse, potrebbe essere utile, ma suscita più di un sospetto l’imposizione autoritaria.



Terza considerazione. L’art. 6 della succitata proposta di legge, “lega” il docente di sostegno, iperformato, plurispecializzato, al proprio alunno, innescando una catena termporale di rinforzo negativo ad un legame simbiotico tra i due: il docente di sostegno c’è perché c’è l’alunno disabile. E, in una sorta di matrimonio infelice, il primo segue il secondo ovunque vada, nella buona come nella cattiva sorte, nella cattiva come nella buona scuola … Ora, beninteso, la continuità didattica è un argomento delicato e ne comprendo le ragioni didattiche. Ma la soluzione mi pare peggiore del male. Infatti, una delle cause peggiori alle disfunzioni dell’attuale regime è dato dall’isolamento disciplinare del docente di sostegno il quale finisce per instaurare con l’alunno disabile una doppia e biunivoca relazione ambivalente. Due termini insolubili, irriducibili al contesto di riferimento, costituenti un negativo rapporto simbiotico. Ora, santificare ex lege tale rapporto, migliora forse l’integrazione scolastica? Ho i miei dubbi, anche molto seri. L’art. 9 è, a mio sommesso parere, interessante dal momento che istituisce l’organico di rete su più scuole.



Considerazione conclusiva. L’art. 16 blocca qualsiasi rischio di aumento della spesa corrente. Quindi, il sostegno scolastico, come tanti altri capitoli della politica scolastica, dovrebbe migliorare a saldi invariati. Ma trattandosi di un provvedimento generale, ne tralascio ogni altra considerazione limitandomi al destino del sostegno scolastico, dal momento che è questo che mi interessa direttamente. Sono, a mio avviso, tre gli elementi portanti della presente proposta di legge: a) l’imposizione normativa severa; b) l’eccesso formativo; c) il peggioramento del ruolo del docente di sostegno. Le tre cose vanno di pari passo e si confermano a vicenda. Il docente di sostegno deve possedere un bagaglio formativo e di nozioni superspecializzato sulla didattica speciale. Ma questo come favorisce la pratica inclusiva? Per di più, l’accento posto sulla mediazione “speciale” suscita più di un sospetto. Infatti, molta importanza viene attribuita alla mediazione didattica la quale, dirigendosi verso utenti “speciali” non può ricalcare le stentate e ripetitive pratiche di mediazione didattica curriculare. Ma, allora, e di conseguenza, cosa verrebbe a fare infine il docente di sostegno? Non più il docente, regista dell'integrazione scolastica, ma una sorta di mediatore, un trasmissore, un canale comunicativo tra la classe (il docente di classe) e l’alunno disabile. Questo è, sotto ogni punto di vista, uno scadimento qualitativo del ruolo del docente di sostegno. Purtroppo, però, tale dequalificazione è inversamente proporzionale al potenziale formativo che viene richiesto: tanto più è la “specialità” di informazioni imposte ex lege, tanto maggiore è il suo basso livello professionale. Registriamo, cioè, un eccesso di specializzazione che, però, non si genera valore aggiunto, ma una riduzione del tipo di prestazioni professionali richieste. L’inflazione formativa, infatti, regge il gioco alla falsa impressione dei proponenti della presente proposta di legge secondo la quale un personale iperspecializzato e pluriformato dovrebbe fornire un servizio decisamente migliore. Ma così non è, non può essere dal momento che la sua funzione scade decisamente al rango di un assistente alla comunicazione, alla pratica didattica ordinaria, ai bisogni speciali del proprio alunno, e non, beninteso, dell’intera classe. Veniamo, così, all’ultimo spunto generato dalla lettura della presente proposta di legge. Il futuro docente di sostegno assume la funzione finale di un erogatore permanente e per l’intero ciclo di istruzione di servizi alla persona disabile … cioè, in breve, il docente di sostegno cessa di essere un docente contitolare della classe ove è iscritto l’alunno disabile per divenire l’assistente personale di quest’ultimo. Ma l’assistenza non comporta nulla in termini di miglioramento del servizio di inclusione scolastica. Forse, migliorerà l’igiene personale o l’autostima dei fruitori finali ma dovremmo chiederci se ne valga la pena. E qui concludiamo le presenti riflessioni. Infatti, la deriva inscenata nella presente proposta di legge non è avulsa dal contesto generale. Cioè, gli utenti come le loro famiglie vivono le medesime tendenze generali degli altri utenti del servizio pubblico di istruzione: le famiglie non vogliono affatto istruzione e docenza, ma sorveglianza ed assistenza. Una sorta di supplenza mattutina del loro ruolo genitoriale per pargoli incapaci di intendere e di volere, ma distruttivi. Allora, se sono le famiglie degli studenti normodotati a chiedere una scuola che assista i propri figli, per quale motivo non dovrebbero chiedere altrettanto le famiglie di figli disabili? Prova generale ne sia la richiesta, a mezza voce, di una progressiva estensione del tempo scuola, nell’arco della giornata e lungo l’anno stesso: non più solo la mattina e non più solo sino ad inizio giugno. La logica è la medesima: sorvegliare, assistere, tenere compagnia ai propri figli perché i genitori non si fidano di lasciarli soli a casa. Non si chiedono né istruzione né formazione, per quelle ci sono internet e i corsi certificati, ma un servizio accettabile, da un punto di vista qualitativo, e non costoso di baby sitteraggio. La stessa dinamica si verifica puntualmente per l’insegnamento di sostegno: non formazione, ma compagnia e soddisfattore di bisogni speciali. 


Così, mi sia permesso il pensiero "ardito", oltre che aulico, muore l’istanza stessa dell’integrazione scolastica, muore il sogno democratico della scuola di Comenio, del “tutto per tutti”, e ci incamminiamo spediti verso la scuola separata e speciale, del “qualcosa ad alcuni”. Tutti contenti, però. E come in tutte le rivoluzioni, ciò accade sotto scroscianti applausi.




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