Scorrendo la proposta
di legge presentata nella versione di Ottobre 2014 da FISH e FAND, salta agli
occhi l’art. 4 il quale, ad un’attenta disamina, sembra prefigurare la nascita
di una classe di concorso specifica e dedicata al sostegno scolastico.
Condizione per accedervi è, addirittura, la laurea magistrale di pedagogia e
didattica speciale. I commi (7) e (8) mirano a imporre restrizioni alla
possibilità per i docenti in organico di diritto, vale a dire assunti a tempo
indeterminato sui posti disponibili, di “fuggire” dal sostegno verso altri
insegnamenti.
Tralasciando le ovvie
finalità dei formulatori della presente proposta di legge, si rendono doverose
alcune considerazioni, specie da chi si trova già in ruolo e conosce il
sostegno scolastico “dall’interno”, vale a dire nel concreto farsi delle cose.
Prima considerazione.
Il futuro insegnante di sostegno viene visto non più come un “tuttologo” che
cerca di mediare gli apprendimenti curriculari, ma come l’esperto biomedico. Ne
consegue, probabilmente, salvo sorprese o modifiche in sede di conversione in
legge della stessa, che il docente di sostegno diverrà a breve un mediatore
speciale. Una sorta di assistente alla mediazione didattica tra la classe e
l’alunno disabile. Se così fosse, non parlerei di progresso del ruolo del
sostegno didattico ma di mero scadimento in una sorta di servizio alla persona.
Ma se così è, non appare allora punitivo
imporre ex lege il conseguimento di
un titolo formativo così “alto” e dispendioso? Vero è che i disabili sono, prima
di ogni cosa, persone e, dunque, necessitano di supporti adeguati per superare
gli ostacoli socio-culturali che ne impediscano il concreto sviluppo, ma perché
il docente di sostegno dovrebbe divenire un simbiotico badante? A quale
pedagogia speciale corrisponde tale assunto? Credo, in tutta sincerità, a
nessuna. E se così è, a cosa si dovrebbe addebitare tale investimento emotivo
da parte delle associazioni dei disabili e dei loro familiari? Ho una risposta
anche a tale interrogativo, ma vi arriverò in seguito.
Seconda considerazione.
L’art. 5 contempla l’aggiornamento alle tematiche e tecniche del sostegno per
il personale curriculare. In modo particolare, il comma (3) impone ai docenti
in anno di prova il conseguimento di almeno 30 CFU sull’«inclusione
scolastica». Anche qua si evince una tendenza “punitiva”, forse eccessivamente
rigorosa sui futuri operatori dell’inclusione scolastica. Il seguente comma (5)
estende tale tendenza imponendo a tutti i docenti con alunni disabili nelle
loro classi di frequentare almeno un corso annuale “sugli aspetti della
didattica dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con altri
bisogni educativi speciali non inferiore a 25 ore” tenuti da Università.
Problema: chi sarà chiamato a foraggiare tale imposizione ex lege di formazione di livello universitario? La P.A. forse? Non
scherziamo. Al massimo, potrebbe darsi il caso che se ne facciano carico
singole istituzioni scolastiche particolarmente “illuminate” e “ricche”. Tutte
le altre, ovviamente, non potranno. E, dunque, sarà infine il medesimo
operatore scolastico, già vessato sotto altri aspetti e per altri capitoli di
spesa, a doversi sobbarcare anche questo ulteriore onere formativo. È giusto?
Chissà! Il comma (6), poi, impone l’uso ad
hoc delle ore funzionali all’insegnamento: “programmazione per una presa in
carico collegiale della didattica della classe”. Questo, forse, potrebbe essere
utile, ma suscita più di un sospetto l’imposizione autoritaria.
Terza considerazione.
L’art. 6 della succitata proposta di legge, “lega” il docente di sostegno,
iperformato, plurispecializzato, al proprio alunno, innescando una catena
termporale di rinforzo negativo ad un legame simbiotico tra i due: il docente
di sostegno c’è perché c’è l’alunno disabile. E, in una sorta di matrimonio
infelice, il primo segue il secondo ovunque vada, nella buona come nella
cattiva sorte, nella cattiva come nella buona scuola … Ora, beninteso, la
continuità didattica è un argomento delicato e ne comprendo le ragioni
didattiche. Ma la soluzione mi pare peggiore del male. Infatti, una delle cause
peggiori alle disfunzioni dell’attuale regime è dato dall’isolamento
disciplinare del docente di sostegno il quale finisce per instaurare con
l’alunno disabile una doppia e biunivoca relazione ambivalente. Due termini
insolubili, irriducibili al contesto di riferimento, costituenti un negativo
rapporto simbiotico. Ora, santificare ex
lege tale rapporto, migliora forse l’integrazione scolastica? Ho i miei
dubbi, anche molto seri. L’art. 9 è, a mio sommesso parere, interessante dal
momento che istituisce l’organico di rete su più scuole.
Considerazione
conclusiva. L’art. 16 blocca qualsiasi rischio di aumento della spesa corrente.
Quindi, il sostegno scolastico, come tanti altri capitoli della politica
scolastica, dovrebbe migliorare a saldi invariati. Ma trattandosi di un
provvedimento generale, ne tralascio ogni altra considerazione limitandomi al
destino del sostegno scolastico, dal momento che è questo che mi interessa
direttamente. Sono, a mio avviso, tre gli elementi portanti della presente
proposta di legge: a) l’imposizione normativa severa; b) l’eccesso formativo;
c) il peggioramento del ruolo del docente di sostegno. Le tre cose vanno di
pari passo e si confermano a vicenda. Il docente di sostegno deve possedere un
bagaglio formativo e di nozioni superspecializzato sulla didattica speciale. Ma
questo come favorisce la pratica inclusiva? Per di più, l’accento posto sulla
mediazione “speciale” suscita più di un sospetto. Infatti, molta importanza
viene attribuita alla mediazione
didattica la quale, dirigendosi verso utenti “speciali” non può ricalcare
le stentate e ripetitive pratiche di mediazione didattica curriculare. Ma,
allora, e di conseguenza, cosa verrebbe a fare infine il docente di sostegno?
Non più il docente, regista dell'integrazione scolastica, ma una sorta di
mediatore, un trasmissore, un canale comunicativo tra la classe (il docente di
classe) e l’alunno disabile. Questo è, sotto ogni punto di vista, uno
scadimento qualitativo del ruolo del docente di sostegno. Purtroppo, però, tale
dequalificazione è inversamente proporzionale al potenziale formativo che viene
richiesto: tanto più è la “specialità” di informazioni imposte ex lege, tanto maggiore è il suo basso
livello professionale. Registriamo, cioè, un eccesso di specializzazione che,
però, non si genera valore aggiunto, ma una riduzione del tipo di prestazioni
professionali richieste. L’inflazione formativa, infatti, regge il gioco alla
falsa impressione dei proponenti della presente proposta di legge secondo la
quale un personale iperspecializzato e pluriformato dovrebbe fornire un
servizio decisamente migliore. Ma così non è, non può essere dal momento che la
sua funzione scade decisamente al rango di un assistente alla comunicazione,
alla pratica didattica ordinaria, ai bisogni speciali del proprio alunno, e
non, beninteso, dell’intera classe. Veniamo, così, all’ultimo spunto generato
dalla lettura della presente proposta di legge. Il futuro docente di sostegno
assume la funzione finale di un erogatore permanente e per l’intero ciclo di
istruzione di servizi alla persona disabile … cioè, in breve, il docente di
sostegno cessa di essere un docente contitolare della classe ove è iscritto
l’alunno disabile per divenire l’assistente personale di quest’ultimo. Ma
l’assistenza non comporta nulla in termini di miglioramento del servizio di
inclusione scolastica. Forse, migliorerà l’igiene personale o l’autostima dei
fruitori finali ma dovremmo chiederci se ne valga la pena. E qui concludiamo le
presenti riflessioni. Infatti, la deriva inscenata nella presente proposta di
legge non è avulsa dal contesto generale. Cioè, gli utenti come le loro
famiglie vivono le medesime tendenze generali degli altri utenti del servizio
pubblico di istruzione: le famiglie non vogliono affatto istruzione e docenza,
ma sorveglianza ed assistenza. Una sorta di supplenza mattutina del loro ruolo
genitoriale per pargoli incapaci di intendere e di volere, ma distruttivi.
Allora, se sono le famiglie degli studenti normodotati a chiedere una scuola
che assista i propri figli, per quale motivo non dovrebbero chiedere
altrettanto le famiglie di figli disabili? Prova generale ne sia la richiesta,
a mezza voce, di una progressiva estensione del tempo scuola, nell’arco della
giornata e lungo l’anno stesso: non più solo la mattina e non più solo sino ad
inizio giugno. La logica è la medesima: sorvegliare, assistere, tenere
compagnia ai propri figli perché i genitori non si fidano di lasciarli soli a
casa. Non si chiedono né istruzione né formazione, per quelle ci sono internet
e i corsi certificati, ma un servizio accettabile, da un punto di vista
qualitativo, e non costoso di baby
sitteraggio. La stessa dinamica si verifica puntualmente per l’insegnamento
di sostegno: non formazione, ma compagnia e soddisfattore di bisogni speciali.
Così, mi sia permesso il pensiero "ardito", oltre che aulico, muore l’istanza stessa dell’integrazione scolastica, muore il sogno
democratico della scuola di Comenio, del “tutto per tutti”, e ci incamminiamo spediti verso la
scuola separata e speciale, del “qualcosa ad alcuni”. Tutti contenti, però. E come in
tutte le rivoluzioni, ciò accade sotto scroscianti applausi.
Qui la proposta di
legge: http://www.fishonlus.it/files/2014/10/PDL_FISH_FAND_inclusione_scolastica.pdf.
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