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sabato 9 agosto 2014

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Il silenzio di Dio. Prospettive etiche per l'ebreo contemporaneo



Il presente lavoro prende in considerazione la novità imposta alla teologia ebraica dell'evento Shoah, culmine dell'intera storia moderna della religione dei Patriarchi e dei Profeti, e che interpella costantemente anche la nostra coscienza di uomini occidentali, così tanto apparentati con chi ha subito l'atroce persecuzione nazista e così tanto «colpevoli», di complicità, di silenzio, di omissione, nei confronti di quanti hanno perpetrato suddetta persecuzione.

Ma cosa comporta davvero la Shoah per la teologia del popolo eletto? Per i contrattori dell'Alleanza? E, per estensione, cosa comporta anche per noi, uomini occidentali? La Shoah pone all'ebreo due domande, tanto fondamentali quanto inquietanti: 1) dov'è il Dio che promise di proteggere Israele?; e, (2) che cos'ha fatto Israele per meritare tutto questo? Il fatto che l'Olocausto di sei milioni di ebrei sia potuto accadere significa, per la coscienza ebrea, che qualcosa è cambiato nel corso della storia di Israele, e che tale cambiamento sia passato del tutto in sordina, che gli israeliti non si siano affatto resi conto del mutamento dell'Alleanza, dei termini del Patto che Dio stipulò con Abramo e con tutta la sua progenie.

Il mutamento, per quanto occulto, impone all'ebreo di porsi due questioni, apparentemente slega te l'una dall'altra, ma in realtà intimamente connesse, in merito agli oggetti principali della fede ebraica: perché Dio non protesse Israele? E che fine hanno fatto le promesse di Dio da un lato e le preghiere degli israeliti dall'altro lato? Queste due questioni, relative al credo di Israele, il nocciolo più profondo e duraturo della millenaria coscienza ebraica, e della sua cultura, inerente al rapporto di reciprocità tra Dio e l'uomo, mettono in questione la natura stessa della fede ebraica, la fede stessa nel Dio dei Padri, la possibilità stessa di alzare ancora una volta lo sguardo verso il Cielo, di benedire ancora il nome dell'Altissimo, di pronunciare sulle proprie labbra parole di lode e gloria nei confronti del Signore ...

L'accorgersi del male subito ad Auschwitz, un male ancora più difficile da comprendere se posto nell'ordine di idee della modernità, un male assurdo, del tutto privo di qualsivoglia comprensione, del tutto gratuito e senza provocazione, dispensato spontaneamente e con accanimento, elevato a mera routine burocratica, rendersi conto della sorda novità improvvisa che la Shoah ha gettato a piene mani sul Popolo eletto, del «tradimento» del Patto antico, del sovvertimento di gran parte delle categorie teologiche tradizionali, impose agli ebrei credenti di ripensare il theasurus teologico tradizionale, o per attingere ancora una volta alla sapienza antica, specialmente alla figura di Giobbe, provato senza giustificazione nelle carni, oltre che negli affetti e nei possessi materiali, oppure per sdoganare opzioni teologiche sinora confinate ai margini dell'ortodossia, e in misura maggiore capaci di fornire risposte convincenti al problema del male, una volta solo improvviso, eccezionale e singola re, adesso banale, quotidiano e di massa.

La necessità di trovare risposte soddisfacenti al male rappresentato da Auschwitz, incarnato nelle molteplici manifestazioni della Shoah, di giustificare l'azione di Dio, e di render conto dell'ingiusti zia subita da troppi ebrei, ha posto le basi per un rinnovamento della teologia ebraica, la quale non a caso distingue adesso tra un «prima» e un «dopo» Auschwitz, al fine di fare i conti, sino in fondo, con la Shoah, con il suo male, con la sua assurdità, etica, umana, storica, teologica. In molti hanno ripreso in mano l'antica storia di Giobbe, l'uomo probo provato sin nelle carni e senza essere consultato di ciò, tenuto all'oscuro delle «macchinazioni» tenute in Cielo, per trovare antiche risposte al problema eterno dell'uomo: si Deus est, cur malum? L'esistenza di Dio contraddice l'esistenza del male nel mondo. O, per dirla altrimenti, la presenza del male nel mondo, come condizione prima della finitudine umana, e materiale, contraddice l'esistenza di Dio. Questo è, in effetti, il nucleo profondo, e problematico, di qualsiasi teodicea, ossia di qualunque tentativo umano di spiegazione dell'origine del male nel mondo, della sua presenza mondana, del suo aver luogo e del suo colpire gli uomini, e tutto questo senza che Dio intervenga a proteggere i suoi eletti, i suoi prescelti, le sue creature.

Quanti oggi riprendono l'antica sapienza jobica si affidano ad opzioni ermeneutiche davvero temerarie, eleggendo le lamentazioni di Giobbe a messe in accusa di Dio stesso. Ma l'ardire di Giobbe, le sue stesse grida, non rasentano mai la blasfemia, non cadono mai nella tentazione idolatrica, nella negazione di Dio in quanto causa delle sue sofferenze. Il rovesciamento, allora, del testo jobico va considerato come l'estremo tentativo di trovare risposte nuove al problema del male, ma abbandonando un poco le usuali strade della teodicea tradizionale, e affidandosi, con coscienza o meno, alle svariate opzioni categoriali offerte dal sottobosco della teologia ufficiale, a quel calderone fervido e fruttuoso della Qabbalah, il sapere non ufficiale, il nerbo segreto della cultura ebraica di tutti i tempi. Secondo Scholem, ad esempio, esso presenta uno dei migliori tentativi di rendere concettualmente comprensibile la categoria teologica della creazione ex nihilo o anche uno dei tentativi più intimi, e seri, di risolvere il problema del male.

E d'altra parte, quale altra opzione giuridica resta disponibile per giustificare un male che cade improvviso, in massa, e senza colpa apparente, su un intero popolo? L'ebreo crede fermamente nel principio della giustizia retributiva, ossia nell'idea in virtù della quale ciascun uomo riceve su questa terra tanta pena quanta colpa ha commesso. Questa è, infatti, la convinzione degli amici di Giobbe, non condivisa da quest'ultimo il quale, con rettitudine, lamenta con forza la sua onestà di fronte a Dio. Ma è solo nello stasimo finale che la contesa si ricompone. La medesima riconciliazione non appare riuscita ai nostri giorni.

Davanti alla Shoah si può restare in silenzio oppure, e questa è la posizione ufficiale del presente lavoro, si può cercare di parlare, di render conto comunque dell'immane presente in essa. Quanti si sono affidati a Giobbe hanno preferito la seconda scelta, cercare di comprendere il male, cercare di renderne conto, di darne una sia pur pallida spiegazione, umana e troppo umana, scomodamente umana, ma comprensibile nel suo anelito e nel suo orizzonte. Giobbe, però, non basta a quanti vivono con animo lacerato anche la sola ricostruzione della tragedia novecentesca che ha investito, e quasi fatto estinguere, un popolo antichissimo. Giobbe è stato così decostruito e reinterpretato, alla stregua di qualsiasi insieme di credenze fondamentali di una religione. Il problema, forse, non è Dio e nemmeno un corpus consolidato di conoscenze, di tradizioni, di soluzioni, teologiche, ma la stessa vicenda storica di un secolo ben preciso, di un periodo tra gli altri, il '900, breve ma intenso, ed ancora privo di una coscienza storica adeguata, forse non ancora conclusosi se si pone mente alle influenze, talvolta anche profonde, che ancora esercita sui nostri destini mortali.

Quanto, in genere, si dimentica nel chiamare in causa Dio per il male del mondo, è la scomparsa dell'umanità, è l'esercizio esagerato della libertà umana, è l'arbitrio umano delle possibilità tecnologiche, è la dimenticanza dell'orizzonte etico della finitezza umana. Da questo sonno dell'umanità, e non dal preteso, quanto ingiustificato, sonno di Dio, deriva la catena di sofferenze ed ingiustizie che chiamiamo Shoah, assieme, forse, ad altre tragedie dimenticate e che hanno insanguinato la Terra, sino alle tragedie mute e senza nome che ancora toccano regioni nascoste del nostro Pianeta, e delle quali al momento solo in pochi parlano. Eppure, comunque, resta importante compiere questo viaggio nella coscienza ebraica, è rilevante, per ciascuno di noi, calarsi dentro l'inquieta e irriconciliata mentalità ebraica, anche per comprendere non solo come la cultura ebrea ha vissuto questi eventi luttuosi, ma anche come noi, che in essa non ci riconosciamo, abbiamo vissuto, ed interpretiamo oggi, questi eventi storici ai quali, vo lenti o nolenti, rimaniamo legati, sia per responsabilità civili sia per solidarietà umana nel riconosci mento della comune «radice che porta»

(continua)


Qui l'articolo completo.

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